La storia
Nel 1971 nasceva la prima organizzazione sanitaria umanitaria, Medici Senza Frontiere. Oggi conta un centinaio di missioni in settantacinque Paesi tra guerre e genocidi. Come racconta una mostra fotografica a Cortona
di Francesca Mannocchi
Ricevendo il Nobel per la Pace a nome di Medici Senza Frontiere (Msf), nel 1999 a Oslo, James Orbinski, presidente del Consiglio internazionale di Msf, disse: non siamo sicuri che le parole possano cambiare vite ma sappiamo con certezza che il silenzio uccide. Le prime parole del suo discorso erano indirizzate al popolo della Cecenia e al popolo di Grozny che da più di tre mesi stavano subendo i bombardamenti indiscriminati dell’esercito russo. Malati, vecchi, infermi cui era negata la possibilità di fuga.
C’era insieme, nelle parole di Orbinski, la gratitudine per il riconoscimento ricevuto e il profondo disagio nel «sapere che la dignità degli esclusi viene ancora aggredita quotidianamente». Disse - parlando della ragione che diede impulso a Medici Senza Frontiere - che l’azione umanitaria è e deve essere più che semplice generosità, più che semplice carità, dovrebbe piuttosto costruire spazi di normalità in ciò che è anomalo: «La nostra è un’etica del rifiuto», furono le parole di Orbinski prima di scandire i crimini contro l’umanità di cui fino ad allora Medici Senza Frontiere era stata testimone: il 1991 in Bosnia-Erzegovina. Il genocidio del 1994 in Ruanda. I massacri del 1997 nello Zaire. Gli attacchi del 1999 ai civili in Cecenia, «questi non possono essere mascherati da termini come emergenza umanitaria complessa, o crisi della sicurezza interna o altri eufemismi, come se si trattasse di un evento casuale, politicamente indeterminato».
Non lo erano, quelle crisi e quei morti, politicamente indeterminati. E non lo sono ancora - a più di vent’anni di distanza dal discorso di Oslo - le guerre in corso, quelle dimenticate, quelle rimosse, quelle prive di testimoni. Portare aiuto a chi ha bisogno e portare indietro notizie, testimonianze appunto, sono state le basi di Msf dalla sua nascita.
Era la fine degli anni Sessanta, la guerra in Biafra tra i secessionisti del sud-est della Nigeria e le truppe governative stava decimando la popolazione. Chi non era ucciso dalle armi era ucciso dalla fame. Nel 1968, il maggio parigino aveva mobilitato studenti, sindacati e associazioni, scesi in piazza in segno di rivolta. Tra loro un gruppo di medici neolaureati che rispose a un appello della Croce Rossa Internazionale e partì diretto in Africa. «Volevamo andare dove le persone soffrivano. Oggi può sembrare banale, all’epoca era rivoluzionario», ha detto uno dei fondatori, Bernard Kouchner.
Kouchner, che oggi ha 80 anni, fu uno dei giovani medici che partirono diretti in Nigeria. «Non eravamo preparati a tale orrore», disse, e aggiunse: «I bambini stavano morendo in massa perché l’esercito stava bloccando tutte le forniture. Era chiaro per noi che esporsi contro questa situazione fosse parte del dovere di essere medici».
Allora, negli equilibri dell’azione umanitaria, i medici non avevano il ruolo e la centralità che hanno oggi, erano altre le funzioni prioritarie: gli obiettivi economici e sociali e la modernizzazione e le relazioni tra Stati. La malattia necessitava cure, certo, ma non era un problema in sé, era piuttosto una questione da subappaltare a missionari e volontari.
I giovani medici francesi, però, volevano cambiare gli aiuti umanitari: equipaggiarli meglio, renderli meno burocratici, aiutare più medici a partire e rendere l’azione umanitaria più reattiva sul piano internazionale. Non volevano, cioè, sostenere i pazienti solo dal punto di vista medico ma anche consegnare, riferire, raccontare in Occidente cosa avevano visto.
Non solo aiutare ma anche testimoniare. O meglio: aiutare anche attraverso la testimonianza. Le storie del Biafra andavano raccontate, i volti e i corpi del Biafra andavano mostrati, nonostante la politica del silenzio delle altre organizzazioni. L’idea di base che animava la dozzina di medici che diede vita a Msf, era: mostreremo al mondo cosa sta accadendo, scuoteremo la coscienza di chi osserva e ascolta, cercheremo di migliorare le cose per chi, in assenza di testimoni, rischia di essere dimenticato.
Fu così che quei giovani medici, nel 1971, fondarono Msf, Medici senza Frontiere. Al momento della fondazione l’organizzazione contava trecento volontari tra medici, infermieri e altro personale, compresi i 13 medici fondatori e giornalisti. Oggi – a cinquant’anni di distanza – Msf ha circa un centinaio di missioni in 75 Paesi, opera negli scenari più complessi del mondo e ha contribuito a cambiare il volto e la filosofia dell’azione umanitaria.
Rony Brauman, che ha guidato Msf dal 1982 al 1994, ha sottolineato in una intervista che sebbene oggi possa sembrare strano, prima della nascita di Medici Senza Frontiere non esistevano organizzazioni mediche umanitarie: «Negli anni Ottanta venivamo criticati, ci chiamavano i medici cowboy, siamo stati accusati di creare aspettative irrealizzabili con le nostre medicine, la verità è che pensavamo che le persone nel Terzo Mondo avessero il diritto di godere dei benefici delle cure mediche».
Oggi quella battaglia di scetticismo è in parte vinta, l’azione di Msf ha influenzato il mondo umanitario e ha accompagnato una capillare attività sul campo a coraggiose denunce.
Lo ha fatto negli anni Ottanta denunciando il programma di reinsediamento della popolazione da parte del governo etiope, quando le autorità locali approfittavano dei campi per registrare i rifugiati e costringerli a trasferirsi a sud e spopolare le aree ribelli, rendendo gli aiuti, di fatto, uno strumento nelle mani del regime.
Msf denunciò l’azione criminale di cui non voleva rendersi complice, con due conseguenze: venne cacciata dal Paese, ma, denunciando, aveva creato un precedente. È la forma che Msf ha dato e continua a dare alla parola neutralità. Oggi, cinquant’anni dopo la fondazione, per Claudia Lodesani, presidente di Msf Italia, la parola neutralità ha due significati complementari: «Neutralità in quanto medico è non chiedere mai quanti anni hai? O da dove vieni? O qual è la tua storia? A un paziente che entra nelle nostre strutture, neutralità verso i pazienti significa prendere in carico chi soffre e ha bisogno di cure. Poi c’è la neutralità come testimonianza che è cosa diversa. Noi siamo apartitici ma siamo politici, perché non c’è niente di più politico che mostrare quello che vediamo».
Lo dice, Lodesani, avendo vissuto e curato Ebola, lo dice osservando il Mediterraneo centrale e lo dice anche portando sulle spalle il peso di uno spazio umanitario che si è profondamente ristretto «rispetto a prima quando dovevamo raccontare cosa avevamo visto, oggi, dobbiamo quasi giustificarci di quello che facciamo. L’azione umanitaria è stata ed è criminalizzata, e l’effetto è naturalmente il pericolo di una distanza da parte della società civile. Non siamo più raccontati come portatori di aiuti necessari, ma come qualcuno che prova a infrangere la legge».
Eppure, o proprio per questo, oggi più che cinquant’anni fa ha ancora senso raccontare. «Raccontare senza esitazione», dice Lodesani, raccontare a un Occidente sempre più chiuso e sempre meno incline a considerare una visione globale degli eventi e dei destini. Raccontare senza esitazione e interrogarsi su come cambiare le parole per dire il dolore degli altri in un mondo sempre più assuefatto.
Nel 1999 James Orbinski a Oslo disse ancora che è la lingua a essere determinante, è la lingua a inquadrare il problema e definire le risposte, i diritti e quindi le responsabilità: «Nessuno chiama uno stupro un’emergenza ginecologica complessa. Uno stupro è uno stupro, proprio come un genocidio è un genocidio. Ed entrambi sono un crimine. Per Msf questo è l’atto umanitario: cercare di alleviare la sofferenza, cercare di ripristinare l’autonomia, testimoniare la verità dell’ingiustizia e insistere sulla responsabilità politica».
È per rinnovare il mandato di partenza – vedere e far vedere - che oggi Msf celebra i suoi 50 anni con una mostra fotografica, dal 15 luglio a Cortona: “Guardare oltre – Msf e Magnum, 50 anni sul campo tra azione e testimonianza”. La retrospettiva ripercorre cinque decenni di collaborazioni in cui Msf e Magnum sono stati testimoni diretti e amplificatori per l’opinione pubblica internazionale di crisi lontane dai riflettori dei media, dai conflitti in Afghanistan e Libano degli anni Settanta e Ottanta al genocidio in Ruanda, dal massacro di Srebrenica al terremoto ad Haiti fino alle attuali rotte migratorie in Messico, Grecia e nel mar Mediterraneo.
Cinque decenni in cui Msf ha osservato dalla soglia e dalla soglia ha raccolto le storie del dolore degli altri.
Luigi Ghirri nelle sue “Lezioni di fotografia” faceva coincidere la soglia con l’inquadratura della macchina fotografica, soglia che non è un bordo, non è semplicemente un confine, ma un punto nello spazio e nel tempo che coincide con la trasparenza tra il mondo di chi guarda e il mondo osservato, che viene liberato, esce allo scoperto.
Ghirri descrive la fotografia come un’operazione di cancellazione del mondo esterno, ricordando che quello che è importante in un’inquadratura, non sia solo quello che vediamo, ma anche l’operazione di cancellazione del mondo che l’osservatore ha scelto di lasciare fuori. La soglia non è, dunque, il confine manuale dell’inquadratura, è il punto in cui si osserva e dunque racconta, e coincide con la comprensione del mondo. È il punto in cui chi guarda viene descritto da ciò che guarda.
Anche Msf, in questi 50 anni è stata sulla soglia.
Nelle immagini di questi cinquant’anni c’è la fame di donne uomini e bambini, epidemie, catastrofi naturali, pestilenze. E, a guardarle bene, fuori dall’inquadratura, oltre la soglia, c’è l’assenza, il fallimento della politica, le vite ritratte non sono sciagure casuali ma eventi politicamente determinati. E in questa disfunzione giace il valore di un’organizzazione che insieme all’aiuto non ha mai esitato nel rivendicare il valore della testimonianza.
«Nessun medico può fermare un genocidio», disse ancora Orbinski a Oslo. «Nessun umanitario può fermare la pulizia etnica, così come nessun umanitario può fare la guerra né può fare la pace. L’atto umanitario è il più apolitico di tutti gli atti, ma se si prendono sul serio le sue azioni e la sua moralità, ha le implicazioni politiche più profonde».