Il sorriso da Budda è sempre lo stesso. Sono quei ciuffi bianchi e quei solchi scavati lungo le guance a dare la misura del passaggio degli anni e delle battaglie di Alexis Tsipras, il ragazzo della sinistra radicale diventato primo ministro durante la peggiore crisi economica del Dopoguerra greco. Sono passati sei anni da quel 2015 in cui la Grecia, in preda alla bancarotta e incatenata dai dettami del patto di stabilità europeo, fu a un passo dall'uscita dall'Euro. Venti anni da quel 2001, in cui migliaia di giovani provenienti da tutto il mondo avrebbero voluto impedire il conclave del G8 di Genova, dove pochi e potenti avrebbero deciso da soli la sorte di miliardi di persone. Vent'anni in cui le proteste contro il neoliberismo globale hanno perso fragore facendosi voce di governo in partiti come Syriza in Grecia e Podemos in Spagna.
Ma se cinque anni fa sembrò impossibile tradurlo in leggi, quell'anelito a un mondo migliore non è evaporato. Le battaglie non furono invano. «Abbiamo piantato un seme che oggi sta fiorendo», racconta Tsipras, seduto davanti a due tori neri in lotta su uno sfondo rosso, il quadro dalle tinte violente che gli regalò nel 2015, all'apice del dramma greco, l'amico pittore Kostas Georgiou. «Oggi è tutto più tranquillo», spalanca bocca e occhi in un sorriso.
Dove si trovava durante il G8 di Genova del 2001?
«Non ho mai raggiunto Genova purtroppo. Ricordo però l'entusiasmo con cui noi greci avevamo organizzato una grande delegazione giovanile per manifestare contro il G8 di Genova, dove si sarebbero incontrati i potenti per prendere decisioni politiche per il pianeta ma, come dicevamo allora, senza alcuna legittimità democratica. Eravamo riusciti a mettere insieme 50 pullman e a farli salire su un traghetto molto grande che era partito da Igoumenitsa in direzione di Ancona. Appena attraccato, i pullman sono usciti ma quello su cui stavo io fu fatto tornare indietro dopo un piccolo giro. Accadde tutto tanto velocemente che non ce ne rendemmo nemmeno conto. Non mettemmo piede su territorio italiano e fummo costretti a restare sul traghetto. Eravamo furiosi e cominciammo a protestare fino a quando i carabinieri intervennero con fermezza. Ero angosciato sull'andare a Genova per le tensioni che ci aspettavano ma ero convinto che avremmo vissuto un'esperienza unica insieme a migliaia di persone. Il respingimento fu un'esperienza triste, per un giorno e mezzo non parlammo. Però portò grande pubblicità al nostro movimento».
Qual era stata la spinta che vi aveva portato a Genova?
«Quell'occasione aveva creato in noi, giovani attivisti politici, la sensazione che quello che facevamo aveva un senso. Non lottavamo più ognuno a casa sua ma protestavamo insieme e, per la prima volta, avremmo potuto fare sentire la nostra presenza e impedire la riunione. Volevamo essere un ostacolo. Era il nostro obiettivo. Creare una grande manifestazione che dimostrasse che non c'erano solo i leader a decidere in contumacia della società ma che la società aveva una parola e voleva porre le sue condizioni. Il nucleo dell'iniziativa era l'opposizione ai governi forti che decidevano del nostro futuro a porte chiuse ignorando la maggioranza della popolazione. Volevamo evidenziare che quella forma di governance globale era autoritaria, antidemocratica e che non sarebbe potuta continuare senza reazioni. Volevamo costringerli a mettere le persone davanti al profitto».
Che influenza ebbe quel G8 sulla futura politica della sinistra?
«Fu decisivo perché da allora è partita una radicalizzazione importante della gioventù europea che ha molto influenzato la sinistra greca. Fino a quel momento i riferimenti della sinistra erano tutti nel passato. Quel G8 ha creato un campo moderno d'azione. Ha offerto alla sinistra la possibilità di parlare la lingua dei giovani e ha dato ai giovani un motivo di esistere nelle organizzazioni di sinistra. Quella mobilitazione era internazionale perché divenne chiaro che non avremmo potuto cambiare il mondo lottando da soli nel nostro Paese. Avevamo intravisto la possibilità di un'azione comune che riunisse movimenti diversi. Potevamo lottare nel campo dell'avversario, quello della globalizzazione neoliberista, perché avevamo globalizzato il campo della resistenza. Quel movimentismo ha poi creato un campo di opposizione non solo contro le multinazionali ma anche contro l'anacronismo dei nazionalismi. Genova ha dato vita a un laboratorio di idee e azioni internazionali come il Forum sociale europeo e quello mondiale, ha scolpito l'identità dei partiti della sinistra moderna dando loro una percezione più fresca della realtà e una nuova terminologia. Fu un momento di grande dialogo da cui nacque nel 2004 Syriza, con l'obiettivo di realizzare un'ampia collaborazione tra tutte le forze della sinistra radicale».
Come è avvenuto il passaggio da movimento di protesta a forza di governo?
«In quegli anni il partito socialista greco, il Pasok, era al governo con una dirigenza che aveva deciso una chiara svolta a destra e che quindi non aveva contatto, anzi era in aperto conflitto ideologico con tutti questi movimenti. Li sottovalutava. Era il periodo dello spostamento a destra della socialdemocrazia europea, di Tony Blair in Gran Bretagna. C'era lo spazio per una nuova sinistra. Dopo avere rinnovato il linguaggio e avere adottato un'ottica internazionale, abbiamo preso una decisione chiave che ci ha dato la spinta decisiva. Abbiamo stabilito come obiettivo politico la vittoria della sinistra alle elezioni: fino ad allora la vittoria era considerata irrealistica per la sinistra radicale, come se le bastasse restare per sempre la voce dell'opposizione».
E poi c'è stata l'esperienza di governo durante la Grande crisi che ha visto la sconfitta dei vostri programmi...
«Non sono d'accordo. Per un semestre abbiamo trasformato in una manifestazione di Genova tutta l'Europa e siamo approdati a una negoziazione estrema mostrando il lato etico del conflitto. Poi abbiamo raggiunto un accordo per senso di responsabilità. Tre anni dopo il Paese è uscito dai memorandum e dalla crisi economica e abbiamo ristrutturato il debito publico. Inoltre abbiamo lasciato in eredità l'idea che quella non potesse essere una politica capace di ispirare e unire gli europei. Ora le idee che abbiamo seminato hanno prodotto frutti. Il modo con cui l'Europa ha affrontato la crisi della pandemia non ha nessuna relazione con il modo con cui l'Europa di Schauble aveva affrontato la crisi greca. La battaglia non è stata vinta da Schauble e non è finita nel luglio del 2015. Oggi tutti hanno capito che l'ideologia neoliberista non è il futuro delle nostre genti. Non è stata una sconfitta».
È questa l'eredità delle lotte anti-global di 20 anni fa?
«Le istanze che rivendicavamo 20 anni fa sono diventate la grande sfida odierna. Dicevamo che per la Terra e per la società sarebbe stato impossibile continuare nello stesso modo. Che non avremmo potuto inseguire ciecamente il profitto. Che avrebbe dovuto esserci lo spazio per un mondo alternativo. E quali sono i dilemmi con cui si confronta oggi il mondo? Il cambiamento climatico, la pandemia e la situazione di paura scatenata dalla pandemia. Se abbiamo imparato qualcosa da quella avventura è che non possiamo continuare nello stesso modo perché il pianeta sarà distrutto e che il modello neo-liberale non è la soluzione. Lo stesso presidente Biden ha ammesso che la cosiddetta economia della ricaduta non funziona e che occorre ricostruire lo stato del welfare per combattere la disuguaglianza. Siamo stati vendicati nel nucleo delle idee che portavamo al G8».
Ora lei è il leader dell'opposizione greca, con un 32 per cento ottenuto alle elezioni del 2019 rispetto al 39 della destra. In questi due anni però la destra è salita e la sinistra è scesa nei sondaggi. Come vede il futuro?
«La sinistra deve parlare ai bisogni delle persone reali, dei lavoratori, dei disoccupati, anche se adesso votano per l'estrema destra. Il problema della sinistra è stata l'adozione della stessa linea dell'Europa, che è molto liberale. Non solo sui temi fiscali ma in tutti gli ambiti. Se è costretta a diminuire il salario minimo e a mettere in ginocchio il welfare, poi è chiaro che la sinistra avrà scarse possibilità di convincere la gente a votarla. Se non esiste una vera differenza tra il centro destra e la sinistra allora la maggioranza della società non ha un incentivo a votare per la sinistra. Dobbiamo incentrare i nostri programmi su temi chiave come il salario minimo, la sanità pubblica, che ci ha salvato la vita durante la pandemia, e la tutela del lavoro, perché i lavoratori non potranno pagare il costo della prossima crisi».
Come convincere i cittadini che i prinicipi programmatici saranno applicati e che non si tornerà alle politiche di austerità?
«Dobbiamo cambiare il paradigma europeo. Per questo è fondamentale che tutte le forze progressiste continuino a cooperare a livello europeo contro quelle conservatrici, come hanno fatto per il Recovery fund. Quando finirà questo momento eccezionale, dovranno imporre il nuovo campo di gioco post-pandemia e evitare il ritorno alla disciplina, all'austerità e al monetarismo. Non possiamo solo dire cose giuste, dobbiamo anche farle. Dobbiamo cambiare il patto di stabilità perché non ci lascia spazio di manovra. Ma in Europa, per decidere aspettano il nuovo equilibrio politico che nascerà dalle elezioni tedesche e francesi».
Ed è per questo che ha preso a girare l'Europa, incontrando tanti leader di sinistra, anche al di fuori del suo gruppo politico europeo?
«Abbiamo deciso di giocare un ruolo di ponte tra i verdi, i socialisti e la Gue/Ngl (Left), di cui facciamo parte, perché Syriza è un partito che è cresciuto e ha assorbito componenti diverse della sinistra, tra cui una buona parte del Pasok, il partito dei vecchi socialisti. Adesso ci chiamiamo "Syriza-Alleanza progressista". Non vogliamo cambiare famiglia politica a Bruxelles ma svolgere un ruolo da mediatori per far cooperare tutte le componenti progressiste dell'europarlamento. Siamo convinti che per ottenere risultati concreti dobbiamo agire insieme in tutta Europa. Il G8 di Genova ci ha insegnato che non si può cambiare il mondo lottando da soli, in un solo Paese, ma che la lotta deve essere estesa a livello europeo. E forse anche mondiale».