Una nuova barriera è in costruzione per respingere i flussi dalla Turchia. Dove l’anno scorso Erdogan fece ammassare migliaia di profughi per premere su Bruxelles

«Lì comincia l’Asia»: Giorgos Chalpakis indica una macchia grigia nella boscaglia verde di fronte a lui. Oltre gli alberi, nella cappa di calore estivo che pesa sulla Tracia, si intravedono gli edifici bianchi dei villaggi turchi. «Alle mie spalle invece ci sono solo campi, campi a perdita d’occhio fino alla Bulgaria: ma con una bandiera greca ben piantata in terra» puntualizza il signor Giorgos.

Osservata più da vicino, la macchia grigia non è altro che una barriera in acciaio, alta cinque metri, piantata su fondamenta in calcestruzzo lungo il corso del fiume Evros, Maritsa per i bulgari, Meriç per i turchi, che segna il confine tra Grecia e Turchia, prima di tuffarsi nell’Egeo.

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Un nuovo muro, lungo 27 chilometri, è in costruzione nella regione per bloccare i flussi migratori e difendere i confini dopo gli episodi del marzo dell’anno scorso, quando Erdogan fece ammassare alla frontiera migliaia di profughi per fare pressione sull’Europa.

In questo confine militarizzato, dove la polizia, l’esercito e gli agenti di Frontex pattugliano i campi e la boscaglia, le mucche al pascolo e le anatre che popolano il fiume sono le uniche a muoversi liberamente all’ombra del muro. L’anno scorso, ufficialmente, 46 migranti hanno perso la vita nel tentativo di attraversare la regione: la maggior parte è annegata nell’Evros.

Lungo la strada sterrata che conduce all’abitato di Poros, dove è in costruzione un nuovo segmento della barriera, i veicoli di Frontex danno il cambio ai trattori degli abitanti. Nel paese accanto, Feres, un cartello sbiadito ricorda in altro modo che quel lembo di terra è ancora Europa: la chiesa bizantina, unico edificio a rompere la monotonia delle case a un piano con i tetti di tegole, è stata restaurata – si legge – grazie ai fondi dell’Unione europea.

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Chi, come Chalpakis, da Feres non se ne è andato, lavora nei campi di mais, cocomeri e meloni. L’inquietudine che ha afferrato la comunità nel marzo dell’anno scorso non c’è più, ma la diffidenza rimane. «I visitatori che fanno domande sono spie delle Ong», avverte un residente all’entrata del paese. Le ronde armate per catturare i migranti sembrano a loro volta acqua passata: «Oggi c’è più polizia e ci sentiamo protetti, ma se occorre i proprietari controllano che nessuno entri nei loro campi», commenta allusivo un altro residente.

Il muro è una barriera fisica, ma anche digitale: la pandemia ha offerto l’occasione per testare nuove tecnologie di sorveglianza, come telecamere a lungo raggio e cannoni sonori, dispositivi acustici capaci di riprodurre suoni insopportabili per l’orecchio umano, il cui utilizzo è stato oggetto di dibattito in ambito europeo. «Ritengo sia uno strano modo di proteggere i confini», ha commentato la commissaria per gli Affari interni Ylva Johansson. «Ma la Grecia non rischia, per questo, la procedura di infrazione».

Per Chrysovalantis Gialamas, presidente dell’Unione della polizia di frontiera dell’Evros, si tratta di polemiche inutili: «Siamo abituati a manifestare la nostra presenza ai trafficanti attraverso segnali luminosi o sonori», spiega il poliziotto. Sull’efficacia del muro, non ha dubbi: «Se a Kastanies non ci fosse stata la barriera, a quest’ora avremmo dovuto affrontare problemi ben più gravi».

Il paese di Kastanies, valico ufficiale tra Grecia e Turchia, è stato l’epicentro degli scontri dell’anno scorso tra esercito e migranti accalcati lungo la frontiera. Dalla zona, nelle giornate più limpide, si distinguono chiaramente i minareti di Edirne, simbolo di questo territorio conteso nei secoli: un tempo capitale dell’Impero ottomano, la città venne ceduta ai bulgari nel primo Novecento, poi ai greci, con il nome di Adrianopoli, e infine alla Turchia.

Da qui parte la maggior parte dei migranti diretti in Europa, con l’obiettivo di raggiungere presto Salonicco, la prima grande città lungo il cammino: più si rimane vicino alla frontiera, infatti, più il rischio di essere espulsi aumenta.

Secondo Amnesty International almeno mille persone, l’anno scorso, sarebbero state respinte illegalmente dalla regione dell’Evros in Turchia. «Documentiamo i respingimenti in Grecia dal 2013», spiega Jennifer Foster, ricercatrice di Amnesty. «Ma oggi appare più chiaro il coordinamento con cui le autorità e persone in abiti civili, non identificate, respingono in maniera sistematica i migranti, alcuni dei quali hanno perfino i documenti che attestano il loro status di rifugiati».

A mezz’ora di macchina a sud di Kastanies, lungo il confine con la Turchia, si incontra il paese di Didymoteicho. Accanto al sito di una moschea ottomana in rovina, tra le più antiche presenti in Europa, si trova la stazione degli autobus. È qui che nel 2016 Fady, un rifugiato siriano residente in Germania, era giunto alla ricerca del fratello di 11 anni, scomparso nell’Evros dopo avere attraversato il confine con l’obiettivo di raggiungerlo.

Fady stava mostrando ai passanti la foto del fratello nella speranza che qualcuno lo riconoscesse, quando degli agenti di polizia lo hanno avvicinato nel piazzale: da quel momento, nel giro di poche ore, Fady è stato arrestato, detenuto, privato dei documenti di identità, a nulla sono servite le sue proteste in un tedesco stentato, e respinto a forza in Turchia assieme ad altri migranti.

È l’inizio di un incubo durato tre anni, durante i quali Fady ha lottato contro la burocrazia del consolato tedesco a Istanbul per riottenere i suoi documenti, ha iniziato ad avere problemi di cuore e per 13 volte ha tentato di raggiungere clandestinamente l’Europa, finché, nel 2019, è riuscito a riprendere possesso dei documenti e a stabilirsi di nuovo in Germania. «Credevo che quel giorno non sarebbe mai arrivato», racconta Fady. «Ma anche quando ho avuto la carta di identità tra le mani, riuscivo a pensare a una sola cosa: trovare mio fratello».

Il caso di Fady è il secondo, relativo ai respingimenti illegali, sottoposto al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, e il primo contro la Grecia. A occuparsene sono le Ong Glan e HumanRights360: «Fady è stato sia vittima di respingimento in base al diritto internazionale che espulso illegalmente in quanto residente dell’Unione europea» spiega Valentina Azarova, una degli avvocati di Glan che assiste Fady. «Il nostro obiettivo è ottenere un risarcimento per gli anni che gli sono stati sottratti, e allo stesso tempo far sì che il respingimento venga considerato l’esito di una prassi consolidata nella regione».

Il ministro greco per l’Immigrazione, Notis Mitarachi, ha sempre sostenuto che la politica migratoria del Paese sia «severa ma giusta» e che la guardia costiera e la polizia operino nel rispetto delle leggi internazionali. «Le storie di respingimenti illegali sono menzogne diffuse dai trafficanti di esseri umani», sostiene Gialamas. «Molti dei poliziotti che lavorano nell’Evros discendono da famiglie greche espulse dalla Bulgaria o dalla Turchia: sappiamo bene cosa voglia dire sentirsi immigrati».

Fady ricorda che gli agenti che lo hanno spinto a forza su una barca per riportarlo in Turchia avevano il volto coperto e intimavano di non guardarli. «I responsabili di queste violenze agiscono nell’impunità, ma l’Europa deve sapere cosa fanno», sostiene. Il suo caso non è unico: le Ong che monitorano la regione hanno documentato altre storie simili.

«Sconsigliamo sempre di tornare nell’Evros perché è molto rischioso», spiega Natalie Gruber della Ong Josoor. «Ci siamo occupati di cinque rifugiati con la residenza in Austria o in Germania che sono stati respinti illegalmente in Turchia e abbiamo lavorato anni per permettergli di tornare in Europa. Chi viene in aiuto dei propri familiari, inoltre, corre il rischio di essere accusato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina».

Per le famiglie dei migranti dispersi, la regione dell’Evros è un buco nero nella mappa dell’Europa: «Non esistono indagini sulle sparizioni», spiega Azarova. «E i corpi trovati nel fiume dai pescatori spesso non vengono identificati perché le famiglie hanno scarso accesso a questo tipo di informazioni. Il Mediterraneo è stato definito un cimitero umano: l’Evros lo è altrettanto».

Per gli abitanti di Feres, l’unico modo per avvicinarsi al fiume è ottenere un permesso per andare a caccia o lavorare nei campi. «Il nostro è solo un territorio di passaggio. Non è qui che si possono trovare le risposte a quello che sta accadendo», riflette Chalpakis studiando il confine. «Il muro fermerà queste persone? No, nessuno di noi si illude a tal punto».

Da quando è stato respinto in Turchia, Fady non è più tornato nell’Evros. Il fratello, che oggi avrebbe 16 anni, risulta ancora disperso. Ogni tanto il dolore al cuore, per cui è in cura farmacologica, ritorna: «Quando il dottore in Germania mi ha visitato per la prima volta era sorpreso che un paziente della mia età avesse un problema del genere: “Cosa ti è successo?” Mi ha chiesto. Non importa con quanto impegno cerchi le parole per raccontare quello che ti hanno fatto», riflette Fady: «Certe parole, semplicemente, non esistono».