Grégoire Ahongbonon ha fondato centri di accoglienza in Benin, Togo e Costa d’Avorio. Che ospitano tremila pazienti psichiatrici spesso in condizioni disperate

Grégoire sembra avere un potere magico quando si avvicina a un paziente psichiatrico che si dimena sdraiato in una buca polverosa di una strada del Togo. Le sue mani lo calmano, in qualche modo lo tranquillizzano con poche parole portandolo con sé in uno dei suoi centri del Saint Camille.

Grégoire Ahongbonon ha 69 anni, gli occhi piccoli e le mani molto grandi, indossa sempre un gilet con molte tasche, come quelli dei fotografi degli anni Ottanta e parla al cellulare per cercare di risolvere qualche problema dei 3mila pazienti ospiti nei centri da lui fondati in Benin, Togo e Costa d’Avorio.


Da quando c’è il Covid-19 le cose sono peggiorate, anche se è riuscito a fare avere una dose di vaccino Johnson & Johnson a quasi tutti i ricoverati. Quando arriva lui in un centro lo abbracciano, lo toccano, lo baciano come fosse il loro padre che viene a trovarli. Grégoire dice di essere un missionario, ogni mattina si sveglia alle 6, va a messa e fa colazione con la manioca bollita (una radice che è una lontana parente della patata) e beve una tisana fatta di foglie di chinino, un’erba amarissima che usano tutti per combattere la malaria e qualunque virus, compreso il Covid-19. Le sue giornate sono caratterizzate da un continuo movimento, non si ferma mai e viaggia per il Benin o va in Togo o in Costa d’Avorio, tra i villaggi e i centri del Saint Camille, tra pazienti e suore perché la sua magia consiste nel credere che un malato mentale è una persona e si può guarire anche nei posti più remoti dell’Africa.

Per questa sua convinzione assoluta di poter non solo aiutare ma anche recuperare persone ridotte in condizioni disperate viene soprannominato il Basaglia nero. A ragione, perché sono tanti i casi in cui ha preso con sé un essere umano buttato sulla strada o addirittura legato a un albero e gli ha ridato prima di tutto dignità e poi pian piano ha recuperato quella parte di lui ancora sana, perché Grégoire sostiene che non tutto si rompe, si deve solo ripartire e allora si inizia facendo fare al paziente il lavoro che faceva prima di stare male o dandogli dei compiti: per esempio chi guarisce aiuta e porta avanti chi è all’inizio del percorso, in una catena di montaggio che gli permette di essere vicino a chi ha più bisogno.

Ci sono pazienti che cucinano, che si occupano della pulizia dei centri, c’è persino un forno e chi fa il pane caldo ogni mattina. Non tutti riescono però ad arrivare a una completa guarigione, molti rimangono fermi nella loro realtà immobile, dove gli occhi guardano senza guardare e le mani si intersecano senza riuscire a toccare nulla, ma sono trattati come esseri umani e ricevano un pasto e hanno una stanza dove stare.

Da trenta anni Grégoire raccoglie malati per strada, molti dei quali in Benin erano legati a vita agli alberi dove facevano i loro bisogni sotto la pioggia o il sole, venendo spesso bastonati perché considerati dei diavoli dai santoni del Vudù. Il Benin è la patria di questa strana religione fatta di riti e sacrifici animali che non ammette interferenze e chi non è considerato normale, è “strano” e viene allontanato dal villaggio. Per chi ha problemi psichici, ancora peggio, viene legato con delle catene per non poter nuocere.

Nel 2014 è stato trovato nel nord del Benin un “campo di preghiera” così chiamato dove erano legate 205 persone, ridotte a scheletri umani che si lamentavano e urlavano. In alcune parti dell’Africa il malato mentale è percepito come posseduto dal demonio, stregato e il suo delirio, il suo comportamento insolito, bizzarro, è interpretato come fosse una specie di posseduto. Tutti lo tengono a distanza, nessuno vuole toccarlo per timore di essere a sua volta contagiato. Per questo nei villaggi lo si incatena ad un albero e lo si lascia così fino alla sua morte mentre in città è lasciato nudo e abbandonato alla sua sorte, per paura.

Lo Stato del Benin non se ne è mai voluto occupare veramente, un po’ per non andare contro i santoni del Vudù e un po’ perché non aveva strutture e modo per poterli curare. È stato Grégoire a scioglierli e a portarli con sé per farli ridiventare persone. Quando si avvicina a loro ha un modo deciso e dolce allo stesso tempo, riuscendo a calmare anche chi è aggressivo.

Ora in Benin non si trovano quasi più “campi di preghiera” e molto raramente persone legate, se non in qualche remoto villaggio. Anche per strada sono in pochissimi a vivere abbandonati alla loro malattia. In Togo la situazione è diversa e ancora ci sono realtà difficili che non riescono a cambiare. Ma Grégoire è sempre fiducioso, ha una fede profonda e anche se i centri ormai sono al completo pensa che in qualche modo si farà, e per strada comunque non lascia nessuno.

Quando è andato in Togo è tornato in Benin con un uomo cieco e malato che viveva sotto un albero. È stato portato in un centro, è stato lavato e gli è stato dato un pasto e una branda dove dormire. Presto un medico si prenderà cura dei suoi occhi e con il tempo forse potrà tornare a vedere.

Quest’uomo dagli occhi piccoli e le mani grandi è riuscito a creare quattro centri di accoglienza in Costa d’Avorio, due centri di riabilitazione; un ospedale con l’unità di medicina generale, di oftalmologia, di radiologia, di odontostomatologia, due laboratori di analisi di cui uno per il trattamento degli affetti da Hiv e una farmacia. In Benin tre centri di accoglienza; un ospedale con un reparto maternità e uno di medicina generale, un Centro di accoglienza e un Centro di riabilitazione a Cotonou-Calavi e 24 relais (punto di consultazione, monitoraggio e consegna farmaci) distribuiti su tutto lo Stato. In Togo due centri di accoglienza, uno di questi ospita oltre trecento pazienti.

All’inizio però non è stato tutto così facile, lo stesso Grégoire ha passato momenti disperati: nato a Ketoukpe, un piccolo villaggio del Benin al confine con la Nigeria, si trasferisce nel 1971 a Bouaké in Costa d’Avorio dove inizia a fare il gommista. Presto apre un’agenzia di taxi che in poco tempo lo fa diventare ricco. Dura poco però perché le cose cominciano a girare male, fa investimenti sbagliati e si ritrova sul lastrico. Comincia un periodo di profonda depressione, tanto da portarlo a tentare il suicidio verso la fine degli anni Settanta.

È però proprio in questo periodo che si riavvicina alla Chiesa cattolica, da cui si era allontanato. Nel 1982 partecipa a un pellegrinaggio a Gerusalemme nel corso del quale una frase pronunciata dal sacerdote durante l’omelia lo toccherà profondamente e cambierà il suo destino: «Ogni cristiano costruisce la Chiesa portando la sua pietra». Al rientro a Bouaké Grégoire riflette su quale possa essere la “sua pietra”. Poi un giorno, guarda una persona che vaga nuda per strada alla ricerca di cibo nella spazzatura. Contro quella che è la cultura locale, Grégoire si avvicina a quella persona che sa essere un malato mentale in quanto la nudità ne è un segno distintivo. In lui è come se vedesse il Cristo e smette di provare paura. Si illumina, capisce in qualche modo quale è il suo compito, cosa vuole fare: aiutare chi è malato e solo.

Con l’appoggio della moglie inizia a vagare per le strade di Bouaké alla ricerca dei malati mentali e offre loro cibo e abiti per coprirsi. Scopre così le condizioni disumane in cui vivono le persone affette da disturbo psichico in Costa d’Avorio e ben presto si rende conto che l’incatenamento e l’abbandono sono pratiche diffuse e accettate dalle comunità locali e che i malati mentali sono considerati “gli ultimi fra gli ultimi”. Prende allora la decisione di dedicare la sua vita alle persone affette dalla malattia mentale e agli emarginati dalla società e inizia a liberarli dalle catene e a raccogliere dalle strade le persone con problemi psichici, gli epilettici e tutti coloro che nessuno “vuole”.

All’inizio porta i malati in una cappella abbandonata, ma ben presto non c’è più posto, con tutti gli sforzi suoi e della famiglia e di tutti quelli che lo aiutano organizza un gruppo di preghiera che in breve tempo si trasformerà in un gruppo di carità per i malati bisognosi di cure: è l’Associazione Saint Camille de Lellis di Bouaké ed è l’inizio di una rivoluzione che ridà fiducia, cominciano in molti ad appoggiarlo e anche a criticarlo, ma la sua fede e le possibilità aumentano e da quel primo centro ne nascono molti altri in Benin e Togo, oltre che in Costa d’avorio.

Grégoire non si vuole fermare, sostiene che c’è molto ancora da fare, le condizioni dei centri sono molto meglio della strada ma possono essere migliorate, bisogna trovare una forma per cui tutti oltre che sopravvivere possano trovare una loro forma di esistenza dignitosa.

Quello che sta facendo Grégoire ha superato i confini degli Stati africani e i centri di psichiatria occidentali si sono interrogati sulle storie di rinascita umana che continuano a contraddistinguere l’opera del Saint Camille. Sono molte oggi le Ong e i centri di psichiatria che lo contattano e lo vengono a trovare per capire quello che sta facendo, come riesce a ridare la vita a una persona malata. Lui risponde a tutti che quello che fa è quello che sente e che ogni uomo ha il diritto di poter vivere un’esistenza dignitosa.

Ogni tanto anche lui sembra stanco, abbassa lo sguardo per un attimo poi si riprende e grida a tutti: «Andiamo, andiamo».