Le prove per il nostro Paese riguardano i rapporti con l’Europa, l’Africa, gli alleati storici. Ed è urgente prenderne consapevolezza

Caro Presidente,

 

il nuovo anno annuncia tre sfide capitali per il nostro Paese sulla scena internazionale.

La prima è immediata ed esistenziale: riusciremo a far valere la necessità di una politica fiscale (e monetaria) espansiva su scala europea come nuova regola, oppure Germania e nordiche “cicale” vorranno dichiarare chiusa l’emergenza virale e riallinearci tutti verso la sciagurata austerità? La proposta italiana e francese di un piano decennale di investimenti strutturali, che rompa con il vecchio e inusabile patto di (in)stabilità e (de)crescita, indica sia l’ambizione che l’allineamento geopolitico del nostro approccio. Qui i limiti di trattativa nell’Eurozona sono stretti, proprio in ragione dell’effetto catastrofico che un ritorno all’indietro provocherebbe per la nostra economia, quindi per i nostri assetti sociali e politici. La formalizzazione via trattato del rapporto preferenziale con la Francia, comunque lo si voglia giudicare, è anche figlio di questa partita. Peraltro, è sempre più evidente che il modello socio-economico tedesco non funziona più, ciò che rende meno improbabile un accordo positivo – alla fine, anche per la Germania.

 

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La seconda, connessa alla prima, riguarda la frattura Est-Ovest che divide l’Europa secondo schemi un tempo attribuiti alle ideologie della guerra fredda, ma che in realtà affondano nelle profondità della storia. E che oggi tornano a galla con virulenza. Abbiamo fatto finta di essere contemporanei, noi europei occidentali e orientali: non lo siamo. A est di Berlino il clima è risorgimentale: si tratta di consolidare la sovranità e l’identità riacquisita con il crollo dell’impero sovietico. La Russia resta il nemico. L’America il protettore indispensabile. La tensione si sta scaricando sulla nuova frontiera fra spazio euroatlantico e spazio russo: l’Ucraina e la Bielorussia. Qui il rischio dell’allargamento del conflitto a bassa intensità in corso nel Donbas, capace di sconvolgere la pace europea, resta palpabile. L’Italia non può non avere una parola da dire in questa disputa.

 

La terza riguarda le nostre frontiere marittime con il Nordafrica. Nelle Libie ormai spaccate e difficilmente ricomponibili si sono insediate due potenze ambiziose: i russi in Cirenaica, i turchi in Tripolitania. Avere a che fare, davanti alle coste siciliane, con due attori di questo peso, capaci ad esempio di regolare i flussi migratori fra Africa ed Europa via Italia, impone al nostro Paese di definire una linea e di tenerla, se necessario anche usando la forza. L’alternativa è finire totalmente oggetto di progetti altrui, proprio mentre il nostro azionista di riferimento, l’America, è con la testa altrove.

 

Queste tre sfide geopolitiche, da inquadrare nel contesto strategico della competizione Usa-Cina-Russia, dovrebbero riportare all’onore del dibattito pubblico e dell’iniziativa di governo l’urgenza di dotarci di uno Stato vero. Nei limiti del contesto euroatlantico a incerta guida americana, peraltro sempre più laschi proprio per la ridotta attenzione del Numero Uno all’area euro-mediterranea e per la disintegrazione del sogno europeista. In questo l’occasione offerta dal Pnrr non ha dato finora l’esito sperabile e il tempo per recuperare è davvero poco. La direzione è inevitabilmente quella dell’accentramento dei poteri, del recupero di efficienza, quindi legittimazione, delle istituzioni dello Stato, e del rinnovamento della pubblica amministrazione. La stagione del vincolo esterno è esaurita da un pezzo. Illudersi di poter continuare a navigare a vista senza pagar pegno significa avviare l’Italia, nella migliore ipotesi, verso la totale emarginazione nelle partite geopolitiche ed economiche fondamentali. Nella peggiore, al suicidio per manifesta incapacità a stabilire a che cosa mai debba servirci.

Con i migliori auguri, anche a noi stessi.