Nel 2021 sono arrivate oltre 20mila persone di origine subsahariana. E il deserto al confine con la Libia è l’area in cui accadono le violazioni più gravi. Che le agenzie internazionali non riescono in alcun modo a contrastare

Un inferno nascosto». Bastano tre parole per descrivere la Tunisia oggi, almeno la regione compresa tra Zarzis, Médenine e Ben Gardane, città del sud del Paese tra le più interessate dal fenomeno migratorio al di là del Mediterraneo. A parlare è Afoua, viene dalla Costa d’Avorio e da mesi vive con altre compagne e i rispettivi figli all’interno del centro dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) a Médenine, capoluogo dell’omonimo governatorato. Dista poco più di cento chilometri dal confine con la Libia, “l’inferno visibile”. I nomi di Afoua e delle altre ragazze sono di fantasia per proteggere le loro identità, bloccate in un limbo giuridico e sociale che sembra non finire mai, le loro storie invece sono tutte reali.

«In Tunisia ti uccidono senza che si sappia. Finisci con delle persone che ti fanno lavorare ma non ti pagano. Non c’è legge qui, se ti ammali l’ospedale non ti cura, lo stesso succede con i nostri figli. Qua ti vedono solo come un corpo da abusare. Almeno i libici lo dicono che ti odiano, i tunisini invece accolgono e poi ti uccidono piano piano». La testimonianza di Afoua si intreccia con le vite di Naminata, Konke e Rosaline. Sono trascorsi simili e particolari allo stesso tempo e sono scappate dalla Costa d’Avorio, il Camerun e la Guinea per ragioni ben precise. Hanno subìto violenze, prigionie e stupri in Libia e sono arrivate in Tunisia dopo vari tentativi di raggiungere l’Europa via mare, finiti con l’intercettazione della guardia costiera tunisina o libica e l’arrivo nel centro dell’Oim di Médenine.

Da anni ormai la Tunisia è interessata dal fenomeno migratorio, sia di arrivo dalla Libia che di partenze verso l’Italia. Nel solo 2021 più di 20mila persone di origine subsahariana sono arrivate nel Paese. Oggi, però, le priorità sono altre. Dal 25 luglio scorso Tunisi sta vivendo un profondo cambiamento istituzionale, quando il presidente della Repubblica Kais Saied ha deciso di congelare il parlamento e sciogliere il governo sulla scia di un’intensa crisi politica, economica e sociale. Una decisione che ha portato Saied a governare con pieni poteri. Il colpo di forza è stato sciolto a fine 2021 con la proclamazione di un referendum costituzionale fissato per il 25 luglio di quest’anno ed elezioni anticipate a dicembre. Tuttavia Saied e il governo guidato dalla premier Najla Bouden Romdhane oggi devono provare ad affrontare un deterioramento delle condizioni di vita interne che rischia di culminare in nuove rivendicazioni popolari. Come per esempio a Médenine che offre pochissime opportunità per i suoi abitanti. Se le condizioni per i tunisini sono pessime, per Afoua e le sue compagne sono ancora peggio.

«Al centro dell’Oim non funziona niente ma almeno ho scoperto di soffrire di diabete. Devo comprare i medicinali ma non lavoro e non ho accesso a nulla», racconta Naminata, scappata dalla Guinea dopo che la famiglia voleva imporle l’infibulazione.

L’inferno nascosto non è solo nella quotidianità in cui è costretta a vivere Afoua, fatta di abusi ed episodi costanti di razzismo: «Recentemente ho iniziato a lavorare come lavapiatti», racconta con la voce rotta: «Una volta ho dovuto chiamare il taxi per tornare perché il proprietario non poteva accompagnarmi. Ci hanno fermato a un posto di blocco sulla via di Ben Gardane. Uno dei poliziotti mi ha costretto a scendere pretendendo un rapporto sessuale. Ho rifiutato più volte e lì ha cominciato a picchiarmi. Alla fine mi hanno lasciato andare ma sono rimasti i segni blu sul corpo».

In Tunisia le procedure di assistenza e protezione sono affidate agli organismi internazionali della Croce Rossa, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) e l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr). In particolare l’Oim e l’Unhcr individuano i beneficiari di protezione, chi può godere di un’assistenza temporanea e chi, invece, non è autorizzato a rimanere sul suolo tunisino.

«Ho fatto domanda di asilo per me e per il mio bambino e quello che ho ottenuto è stata una tessera dell’Unhcr. Tuttavia non ho diritto a cure e non posso permettermi neanche una stanza. L’unica alternativa credibile è la strada. Pensavo che la Tunisia fosse diversa dalla Libia, non è così», è la testimonianza di Konke, scappata dal Camerun a causa di violenze di genere, dalla Libia dopo diversi stupri e affetta da gravi deficit motori che le impediscono di camminare.

L’approccio tunisino alla questione migratoria resta quindi emergenziale. L’articolo 26 della Costituzione sancisce il diritto all’asilo secondo le leggi in vigore. Le quali tuttavia non esistono. «Qui non ci sono quadri giuridici e logistici per garantire condizioni di vita degne. I migranti sono lasciati a loro stessi, questo ha provocato molti problemi a Sfax, la principale città da dove si parte, e Médenine. Nell’ultimo anno abbiamo registrato diversi casi di razzismo da parte della popolazione locale», dichiara a L’Espresso Romdhane Ben Amor, portavoce del Forum tunisino per i diritti economici e sociali (Ftdes).

Un sistema che di fatto è stato appaltato alle agenzie internazionali e alimenta il pragmatico concetto di Fortezza Europa e il progressivo processo di esternalizzazione delle frontiere. Dal 2011 l’Unione europea, in un quadro che comprende diversi campi d’azione, ha finanziato la Tunisia per un totale di 2,5 miliardi di euro. «Dall’anno scorso la situazione è veramente inquietante: ci sono pressioni europee per fare giocare alla Tunisia un grande ruolo nelle intercettazioni, oggi avvengono anche in acque internazionali. I mezzi messi in campo dalle agenzie dell’Onu non sono adeguati alla situazione che stiamo vivendo», conclude Ben Amor. L’approccio attuale al fenomeno migratorio ha portato a un aumento del 90 per cento dei respingimenti in mare rispetto al 2020. Da più parti è stato paragonato al modello libico: «Il viaggio è pericoloso, ti bloccano in mare e tanti subsahariani sono naufragati. Ma qui i tunisini non ci vogliono e negano i nostri diritti. Che dobbiamo fare?», prosegue Afoua. Il dato più inquietante lo fornisce l’Oim stessa: dal 2014 sono più di 23mila le persone scomparse nella rotta del Mediterraneo centrale.

Le capacità inadeguate sollevate da Ben Amor si rivelano in tutta la loro drammaticità a livello quotidiano. Il 26 novembre 2021 circa 500 migranti partiti dalla Libia sono stati salvati al largo della Tunisia e portati al porto di Ben Gardane. Stando alle testimonianze raccolte da L’Espresso, l’Oim ha consigliato il ritorno volontario al proprio paese di origine alle persone che nel frattempo erano state inserite nei centri di Médenine, Zarsis e Tataouine, negando in sostanza la possibilità di accedere alle tutele legali della protezione internazionale. L’arrivo di 500 persone ha causato diversi problemi di sovraffollamento. Soprattutto a Médenine con la sospensione dei ticket settimanali: «L’Oim è venuto con la Garde nationale, proprio quella che cattura in mare i migranti che vogliono arrivare in Europa. Dicono che se non ce ne andiamo a breve ci prenderanno e ci butteranno nel deserto», è la denuncia di Afoua, preoccupata anche per il futuro dei suoi figli.

Il deserto al confine tra la Tunisia e la Libia è anche quell’area di mondo dove avvengono le principali violazioni dei diritti umani. Un lembo di terra inaccessibile dove da anni arrivano testimonianze di violenze arbitrarie: «Ora alla frontiera si spara, poche settimane fa un giovane è arrivato qui e gli hanno trovato un proiettile nella testa», racconta Abdallah Seif, presidente della coalizione delle associazioni umanitarie di Médenine.

Una luce è stata accesa il 27 settembre dell’anno scorso quando alcuni migranti sono riusciti a riprendere il respingimento collettivo di circa 80 persone intercettate in acque tunisine e lasciate in pieno deserto.

Una di loro era Rosaline, originaria della Costa d’Avorio, incinta di cinque mesi e oggi ospite dell’Oim a Médenine. Aveva già attraversato il deserto una prima volta a inizio 2021 quando era riuscita a scappare da una prigione a Zuara, in Libia. Il suo racconto avviene con un filo di voce: «Ogni giorno venivano a picchiarci, stuprarci e minacciarci. Una volta che pioveva abbiamo visto che c’era la chiave nella porta della prigione, abbiamo capito che potevamo scappare. Quando ci siamo trovate nel deserto eravamo 40 e in molte sono morte, compresa mia cugina. Mia figlia era molto malata e non avevo acqua da darle. Mi diceva ti amo, parole che non sono di una bambina di quell’età. ll suo corpo è diventato freddo ma io ero convinta che fosse viva, non potevo credere alla morte di mia figlia».

Le testimonianze di Afoua, Naminata, Konke e Rosaline aprono uno squarcio sulle violenze e i soprusi che subiscono le migranti al di là del mare, in un contesto dove la presenza delle organizzazioni internazionali viene considerata precaria e la rete delle associazioni della società civile quasi del tutto assente.

Se per l’Europa la Tunisia rimane un partner solido per il controllo della mobilità nel Mediterraneo, per le migranti e i migranti si tratta dell’ennesimo inferno, ormai neanche più nascosto.