Scenari
I rapporti tra gli Stati Uniti e i paesi del Golfo sono ai minimi termini
Joe Biden ha preso malissimo la decisione dell’Opec di tenere alto il prezzo del petrolio. E ora il saudita Mohammed bin Salman e il suo amico degli Emirati Mohammed bin Zayed Al Nahyan vanno per la loro strada
Proprio mentre pensava di poter contare sugli amici più fidati per evitare che pericolose lesioni si aprissero sulla sua strategia d’attacco per fermare Putin, Joe Biden è costretto a fare i conti con gli alleati ribelli del Golfo, sempre più insofferenti alle insicurezze palesate dalla politica estera americana in Medio Oriente e sempre più tentati di percorrere una loro via diplomatica in un mondo sempre meno unipolare.
Questo sentimento di disillusione, quando non di tardivo disincanto, nei confronti del vecchio alleato e protettore d’oltre oceano si avverte, sottotraccia, nei commenti di tutti, o quasi, i governanti mediorientali che partecipano in queste ore allo tsunami di parole, accuse e ripicche, provocato dalla decisione presa il 5 ottobre scorso dall’Opec+, l’Organizzazione che raccoglie 23 paesi produttori di petrolio, inclusa la Russia, ma non l’America, di tagliare la produzione di ben due milioni di barili al giorno, in modo da mantenere alto il prezzo del greggio, intorno ai 90 dollari al barile. Una decisione che nella polarizzazione provocata dall’aggressione russa all’Ucraina è stata vista dagli Stati Uniti come un favore a Putin, il quale, grazie agli alti prezzi del petrolio e del gas può continuare a finanziare la sua guerra. L’uomo che ha imposto all’Opec quel taglio sanguinoso è il potente principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, o MbS, come scrivono i giornali, di fatto il reggente del trono delle due scimitarre, solo formalmente affidato allo scettro dell’anziano e fragile re Salman. Il quale, a conferma della successione in atto, ha da poco trasmesso al trentasettenne erede la carica di primo ministro, solitamente spettante al monarca regnante.
Autoritario, più che autorevole, spregiudicato nella sua scalata al potere anche a costo di travolgere altri membri della famiglia, accompagnato da una fama di riformatore che contrasta col pugno di ferro adoperato contro i promotori dei diritti civili, MbS avrebbe perso ogni legittima aspettativa al trono dopo i gravi sospetti gettati su di lui, anche dai servizi di sicurezza americani, quale mandante della raccapricciante uccisione del giornalista e oppositore, Jamal Khashoggi, strangolato e fatto a pezzi da una squadra speciale inviata da Ryad, nelle stanze del Consolato saudita di Istanbul.
Invece, quattro anni dopo quel delitto, MbS non soltanto conta i giorni che lo separano dal trono, senza che nessun governo osi sollevare alcuna obiezione di tipo morale, ma continua a coltivare i progetti faraonici che gli sono valsi la fama di visionario innovatore, tra i quali spiccano un complesso sciistico nel deserto e una città supertecnologica (Neom) da 500 miliardi di dollari, in parte fluttuante sulle acque del Mar Rosso. Progetti per finanziare i quali occorre che la risorsa principale del reame petrolifero, il greggio, costi ai consumatori sempre di più. Ed ecco, quindi, pronta la giustificazione al taglio imposto alla produzione: «decisione puramente economica non politicamente motivata», insiste Ryad.
Basterebbe soltanto osservare la distanza siderale che separa il giovane despota seduto su un’immensa ricchezza, abituato a non rispondere del proprio operato, dal vecchio presidente, aggrappato al potere ma sempre sottoposto alle leggi del consenso popolare, per concludere che Biden non aveva nessuna possibilità di venire ascoltato quando, secondo quanto ha rivelato il ministro saudita per l’Energia, nonché fratello del principe ereditario, Abdel Aziz bin Salman al Saud, la Casa Bianca ha implorato MbS di rinviare la decisione dell’Opec di un mese. Non c’è bisogno di ipotizzare, come hanno fatto molti politici americani, diabolici voltafaccia da parte saudita, o un inedito asse Mosca-Ryad, dove al massimo sembra essersi consumato un matrimonio estemporaneo di interessi. Il taglio della produzione danneggia i Paesi europei e aiuta Putin, è vero, ma da questo a ipotizzare un riallineamento Russia-Arabia Saudita ne corre.
Ma il problema non riguarda soltanto l’Arabia Saudita. L’altro protagonista dello scontro tra gli Stati Uniti e i signori del Golfo è l’uomo che ha creato, politicamente, il personaggio di Mohammed bin Salman, che ha puntato su di lui quando era un giovanissimo principe con molte ambizioni e poco acume, e che lo ha introdotto nelle alte sfere del potere americano, a partire dalla famiglia Trump. Lo sceicco Mohammed bin Zayed Al Nahyan, presidente degli Emirati Arabi Uniti, dopo una vita passata a esserne il ministro della Difesa. MbZ, come viene chiamato sui giornali per assonanza col suo epigono, contrariamente all’irruento MbS è paziente e calcolatore, ma detesta sentirsi dire quello che deve fare. Tant’è che, quando l’Opec ha deciso il taglio alla produzione che ha mandato su tutte le furie gli americani, lui, lo sceicco emiratino, ha fatto sapere di essere «preoccupato» delle possibili conseguenze.
Ma poi si è adeguato. Perché sulla questione Russia-Ucraina-Stati Uniti, cioè sulla guerra che rischia di mandare il mondo a gambe all’aria, ha un suo progetto di mediazione che gli è già valso la liberazione di 215 soldati ucraini prigionieri della Russia, in cambio di 54 russi e del magnate ucraino amico di Putin, Viktor Medvedchuk. MbZ, martedì 11 ottobre, è volato a San Pietroburgo per incontrare Putin e parlare anche di come porre fine al conflitto.
Per gli Emirati Arabi Uniti, non meno che per l’Arabia Saudita e per il Qatar (l’emiro del Qatar, Tamimi bin Hamad al-Thani ha incontrato Putin il 13 ottobre al vertice di Astana) la guerra nel Nord Europa ha una valenza economica imprescindibile e, come tutte le guerre, può risultare per alcuni un buon affare. Nel caso degli Eau non solo grazie alle speculazioni sui prezzi delle materie energetiche ma anche grazie al ruolo degli Emirati, in quanto “transhipment location”, luogo di trasbordo, nel commercio internazionale delle armi. Così, pur condannando al pari dell’Arabia Saudita l’annessione delle regioni ucraine decisa da Putin, gli emirati hanno chiarito che non intendono rinunciare agli investimenti e alle joint venture create in Russia. Business as usual.
Così Dubai è diventato il paradiso dei russi inseguiti dalle sanzioni: oligarchi, uomini d’affari, cacciatori di opportunità, sono più di centomila gli attuali residenti “russian speakers”, a cui si sono aggiunti, anche 15mila ucraini difficilmente etichettabili come persone in fuga dalla guerra. Gli oligarchi sono presenze ingombranti. Il loro capofila, Roman Abramovich, ex proprietario del Chelsea, se non amico, almeno “nella manica” di Putin, è arrivato negli Emirati con il suo Boeinig 787 Dreamline da 314 milioni di dollari. Andreij Skoch, acciaierie, deputato della Duma, ha messo in rada una barchetta da 156 milioni. Chi li ha aiutati ad aggirare blocchi e divieti internazionali? Alcuni investigatori ucraini, tramite due penalisti inglesi, hanno accusato il vicepresidente degli Emirati, Sheik Mansour bin Zayd Al Nayhan, fratello del Presidente MbZ, di aver aiutato Abramovich a trasferire danaro “sanzionato” negli Emirati. Ma l’inchiesta non è mai partita.
Resta, così, sospeso come una Spada di Damocle, ma più retorica che efficace, il “disappunto” di Biden provocato dal taglio inatteso deciso dall’Opec+. «Ci saranno conseguenze. Prenderemo provvedimenti», ha detto guardandosi bene dallo specificare. I deputati democratici sono andati ben oltre, accusando i sauditi di aver tradito l’alleato americano con Putin e invocando il congelamento dei rapporti e la sospensione delle forniture militari. Quelle americane ammontano al 73% dell’arsenale saudita, il che non è poco. Ma è difficile che Biden giunga a tanto. In fondo, già una volta, il presidente americano che pure aveva accusato MbS di essere un “paria” e aveva reso pubblici i rapporti dell’intelligence sul ruolo di mandante svolto dal principe nel delitto Khashoggi, ha perdonato l’erede al trono saudita nell’inutile viaggio di luglio, a Gedda, a tutti parso come un gesto di pacificazione.
Adesso a Washington si parla di “rivedere”, “ricalibrare”, “rivalutare” i rapporti con gli alleati indisciplinati del Golfo. I quali, più facilmente, grazie al fiuto commerciale che distingue quelle genti, troveranno il modo di pareggiare i conti energetici, come hanno promesso, con un abbassamento del prezzo del petrolio a dicembre. Con buona pace, stavolta, anche di Putin.