È stata arrestata più volte e torturata perché scesa in piazza a volto scoperto e con i capelli sciolti. Oggi l’attivista vive in Canada: “La nostra è una rivoluzione che cambierà la storia”

In Iran si può morire per una ciocca di capelli al vento, che rivendica libertà. Lo ha vissuto sulla sua pelle Shaparak Shajarizadeh, che ha subito le stesse atrocità che hanno condotto alla morte Masha Amini. Come lei, Shajarizadeh è stata fermata dalla “polizia della sicurezza morale” che l’ha portata nello stesso centro di detenzione di Vozara a Teheran. «So quello che le hanno fatto perché conosco la brutalità degli agenti», racconta a L’Espresso collegata da Toronto, in Canada, dove vive come rifugiata politica. «Sono stata picchiata, hanno sbattuto la mia testa ripetutamente contro il suolo, mi hanno umiliato chiamandomi “troia”, “cagna”, mi hanno fatto spogliare, colpito con violenza e poi chiusa in una cella di isolamento, mi hanno detto che sarei marcita dietro le sbarre. Accanto a me c’erano donne nere dai lividi».

 

Nel febbraio del 2018 Shajarizadeh è scesa per la strada a volto scoperto e con i capelli sciolti per prendere parte alla protesta “White Wednesday” (Mercoledì Bianco), una campagna lanciata dalla giornalista iraniana Masih Alinejad.

 

«Ero su Viale Enghelab (Rivoluzione) con il foulard bianco appeso a un bastone», racconta: «A 42 anni avevo capito che la libertà dovevamo prendercela da sole».

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I giorni bui tornano dal passato di Shajarizadeh che non si toglie dalle mente l’immagine della giovane curda iraniana. Torturata per qualche capello, forse, fuori posto, Masha Amini è morta a Teheran a soli 22 anni nell’ospedale di Kasra per una probabile commozione cerebrale. Le autorità iraniane hanno dichiarato che il decesso in custodia è legato a una malattia cerebrale ma suo padre, che ha denunciato gli autori dell’arresto, ha assicurato che sua figlia era “in perfetta salute” e di aver visto con i suoi occhi “che il sangue le era sgorgato dalle orecchie e dal collo”.

 

«Sono stata fortunata a non essere morta anche io, ma sono rimasta ferita in modo molto grave», continua Shajarizadeh. «Soffro di disturbo da stress post-traumatico, sono claustrofobica, non posso stare in una stanza con la porta chiusa e ho attacchi di panico, ancora oggi».

 

Dopo l’arresto, Shajarizadeh è stata condotta nella prigione di Gharchakm dov’è rimasta una settimana, per protesta ha fatto lo sciopero della fame. Dopo un mese è stata portata con il marito nel carcere di Evin, accusati di essere due spie.

 

«La terza volta mi hanno imprigionata con mio figlio», continua, «sono stata ammanettata e interrogata di fronte al lui che urlava di lasciarci andare a casa. Quella sera in tribunale ha pianto perché voleva dormire sulle mie ginocchia. Ero seduta su una fredda panchina di pietra e in quel momento ho promesso a me stessa che non avrei mai più permesso che questo accadesse alla mia famiglia». Shaparak Shajarizadeh ha passato altri nove giorni tra le sbarre. A salvarle la vita è stata la nota avvocata iraniana per i diritti umani Nasrin Sotoudeh che è riuscita a farla uscire su cauzione.

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«Sono fuggita dall’Iran con mio figlio prima che iniziasse il processo, poco dopo hanno arrestato la mia avvocata». Sotoudeh ha pagato il suo impegno, in difesa di alcune donne iraniane che avevano protestato contro l’obbligo di indossare lo hijab, con una condanna a 38 anni di carcere e 148 frustate.

 

Su Shaparak Shajarizadeh pesa una condanna di venti anni: «Due anni di detenzione e 18 di prova. Se mi fossi ancora tolta il velo, sarei stata chiusa in carcere».

 

Dopo la morte di Masha Amini è nato un movimento di protesta a partire dalla provincia iraniana del Kurdistan, da cui la giovane era originaria, che si è poi esteso a tutto l’Iran con coinvolte oltre 80 tra città e piccoli centri. In testa ci sono donne e giovani con un’età compresa tra i 15 e i 25 anni, che manifestano nelle scuole e nelle università. Un’onda umana per chiedere la libertà, la fine del dogmatismo religioso e politico, uno Stato di giustizia con al centro la dignità umana e i diritti civili, senza più discriminazioni.

 

«Il mio cuore è in Iran con le mie sorelle e i miei fratelli. Vorrei essere con loro, molti miei amici sono stati arrestati, è terribile la violenza delle autorità su chi manifesta pacificamente».

 

Secondo Amnesty International sono 144 i manifestanti uccisi, tra cui almeno 23 minorenni, deceduti nella maggior parte dei casi perché colpiti da proiettili o a seguito di pestaggi. La repressione dello Stato iraniano passa anche attraverso il blocco di Internet, per controllare i social media che hanno fatto da veicolo ai contenuti della protesta ovunque, dentro e fuori dall’Iran.

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Shajarizadeh conosce il prezzo che sono disposte a pagare le donne in nome di Masha Amini: «Sono senza paura e vederle in massa è un sogno che si realizza, bruciano lo hijab che è il simbolo dell’oppressione, di sistematiche discriminazioni sessuali e violenze del regime iraniano sulle donne a cui non è permesso ridere, cantare e ballare per le strade altrimenti sono maltrattate, vivono perseguitate dalle pattuglie». Shajarizadeh è grata per la solidarietà internazionale che le iraniane stanno ricevendo, ma tagliarsi i capelli non basta: «Le donne in Occidente devono capire che in Iran c’è un regime di apartheid sessuale. Le politiche così come le giornaliste parlano di diritti umani ma quando vengono in Iran obbediscono e indossano lo hijab. Questo è un tradimento».

 

Le donne in Iran hanno animato diverse proteste, che hanno continuato ad ardere sotto la cenere, come quelle scatenate nel 2009 dalla morte di Neda Agha-Soltan, la ragazza uccisa a 26 anni da un miliziano mentre prendeva parte con il padre alle proteste post-elezioni presidenziali represse dalle autorità, e più recentemente quella delle “Ragazze di Via Enghelab” nel 2018 alle quali ha preso parte Shajarizadeh.

 

Ma questa volta al grido “Donne, Vita, Libertà” ha preso forma un movimento senza precedenti per unità, durata e massiccia partecipazione di tutti i gruppi sociali: «È l’inizio di una rivoluzione. Queste donne stanno scrivendo la Storia, butteranno giù il regime, la rivoluzione sociale sta già avvenendo e ne seguirà una politica perché le persone sono stanche di un governo corrotto, bugiardo, repressivo e che spende soldi per armare gruppi terroristi nella regione invece che investirli per il bene comune».

 

I manifestanti gridano “Combattiamo, moriamo, ma ci riprenderemo l’Iran”: «Ci sono tutti in piazza, non solo donne ma anche uomini, intere famiglie con bambini.

 

Tantissimi studenti hanno strappato dai libri scolastici le immagini di Ruhollah Khomeini, fondatore della Repubblica islamica, e del leader supremo Ali Khamenei. Ora rispetto al passato sono tutti pronti a difendersi e combattere».

 

A prendere posizione deve essere ora la comunità internazionale: «Rappresentanti politici, capi di Stato e governo dovrebbero schierarsi a favore del popolo e non del regime che non ha alcuna legittimità in Iran. Dovrebbero interrompere negoziati e relazioni diplomatiche, richiamare gli ambasciatori».

 

Shaparak Shajarizadeh crede in quello che chiama «l’effetto farfalla»: «Ogni piccolo gesto finisce per produrre il cambiamento nel tempo». E non vuole pensare che Masha Amini sia un’altra farfalla che vola via ma che, come recita l’iscrizione sulla sua lapide: “Name-to ramz mishavad”, ovvero, il tuo nome diventerà chiave».