Reportage
«Non abbiamo scelta»: viaggio tra i civili che prendono le armi in Ucraina
Gli uomini accompagnano donne e bambini al confine e poi corrono ad arruolarsi, mentre Zelensky fa appello ai volontari da tutto il mondo. Ormai la “vita di prima” non esiste più. Ma cresce il rischio di milizie fuori controllo
Ci sono tante ragioni per fare la guerra. Taras dice che è qui, a iscriversi come volontario per combattere, per proteggere i giochi di sua figlia. Perché da una settimana, da quando i russi hanno invaso l’Ucraina sua figlia ha più dimestichezza con la cantina che usano come rifugio antiaereo che con il giardino e l’altalena.
Taras non lo sopporta. La vita da tecnico informatico è andata, quasi non la nomina più, la vita che è diventata «la vita di prima» in meno di sei giorni. La guerra è a Kharkiv, 200 chilometri, tre ore di macchina da qui, da Dnipro, e lui non vuole che entri in città. Non vuole vedere la sua casa in macerie. E non vuole andare via. Le armi, dice, le ha sempre solo viste dalla vetrina dell’armeria lungo la strada di casa. Non ha mai pensato di tenerne in mano una, non si è mai chiesto cosa avrebbe provato se si fosse trovato di fronte un uomo della sua età, sul fronte nemico, un uomo come lui da uccidere. Perché la guerra è fatta di analisi complesse e parole molto semplici. La vita e la morte. Morire e uccidere. Qualcosa si inceppa, quando ci pensa. Sono pronto a uccidere? Detta così, la guerra, non l’aveva mai pensata.
Ce l’ha in casa da anni, dal 2014, ma non si era mai avvicinata così tanto da doverla spiegare a suo figlio. E poi in fondo, spiegarla non serve. Perché suo figlio è nato nel 2015, un anno dopo l’inizio della guerra in Donbass. Quindi lui già sa, o meglio, non sa nient’altro che questo.
Non ho scelta, dice Taras mentre la fila di uomini alle sue spalle si allunga, sono giovani e anziani, uomini nuovi al combattimento e veterani. «Non ho scelta», ripete, mentre quelli che escono dopo essersi registrati, impugnano già gli Ak47 e nel volto di Taras quella frase, «non ho scelta», che fino a pochi minuti prima aveva il sapore del coraggio, comincia a prendere quello del timore.
Ecco, la guerra è questa cosa qui. I due volti del non avere scelta, qualunque cosa si faccia nel frattempo, combattere o scappare.
La guerra è anche quello che succede mentre tutti siamo impegnati a occuparci della cronaca. Quello che si muove ai lati mentre al centro cadono le bombe e muoiono i civili. Oggi, in Ucraina, accade che la gente si armi. Tutti, ognuno come può.
Il presidente Volodymyr Zelensky ha chiamato il Paese alle armi per combattere i russi, invitandoli a iscriversi ai gruppi di Difesa Territoriale e ha invitato i combattenti stranieri a unirsi nella formazione di una “Legione internazionale di difesa territoriale dell’Ucraina”.
«Chiunque voglia unirsi alla difesa dell’Ucraina, dell’Europa e del mondo può venire e combattere fianco a fianco con gli ucraini contro i criminali di guerra russi», ha detto Zelensky in una dichiarazione rilasciata domenica 27 febbraio. A seguire una dichiarazione simile del ministro degli Esteri di Kiev, Dmytro Kuleba che ha fatto appello al patriottismo ucraino, paragonando Putin a Hitler: «Dico a tutti gli stranieri disposti a difendere l’Ucraina e l’ordine mondiale di contattare le missioni diplomatiche estere dell’Ucraina nei rispettivi Paesi. Insieme abbiamo sconfitto Hitler e sconfiggeremo anche Putin». Le ambasciate ucraine in tutto il mondo stanno facendo eco al messaggio, agendo di fatto come centri di reclutamento. Non serve esperienza militare, dicono gli appelli: portate un giubbotto antiproiettile, le protezioni per gli occhi se le avete. Alle armi pensiamo noi. L’arrivo di combattenti stranieri non è nuovo qui. Secondo il Soufan center di New York, dal 2014 quattromila volontari stranieri si sono uniti all’esercito ucraino per combattere sul fronte del Donbass. Oggi, però, la partita si allarga. Così come il pericolo e le minacce.
Putin ha ordinato la massima allerta delle sue forze nucleari a promemoria, per l’Occidente, che tutto possa finire malissimo. Evidentemente deluso dalla risposta internazionale, compatta a supporto di Kiev. E ha cominciato a punire le grandi città. Come Kharkiv, la seconda città del Paese, un milione e mezzo di abitanti. In tre giorni le truppe russe hanno fatto saltare in aria un gasdotto, esplosione che potrebbe causare una catastrofe ambientale e ha lanciato bombe a grappolo in un’area residenziale a nord della città. Nel momento in cui scriviamo, mercoledì due marzo, è ancora incerto il numero delle vittime civili degli intensi bombardamenti dei giorni scorsi.
Il ministro della Salute ucraino Viktor Liashko ha affermato che le forze russe hanno ucciso 198 ucraini, inclusi tre bambini, e ferito 1.115 persone tra cui 33 bambini. Numeri impossibili da verificare come sono impossibili da verificare i numeri sulle vittime militari, cinquemila da parte russa, secondo l’esercito di Kiev.
Gli unici numeri certi sono quelli di chi scappa. Secondo l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati in una settimana di guerra 500 mila persone sono uscite dai confini internazionali dell’Ucraina. Quasi solo donne e ragazzini, gli uomini li accompagnano ai confini e tornano indietro a combattere. Spaventati che Putin voglia trasformare Kiev in Grozny o Aleppo.
Fate arrivare presto le armi, dicono tutti qui a Dnipro, in attesa di iscriversi al reclutamento, tante, letali e subito. Sebbene i Paesi europei abbiano annunciato l’intenzione di inviare armi più letali in Ucraina, non è chiaro quanto velocemente saranno consegnate e dove.
Due rischi: il primo che la battaglia di Kiev si trasformi in una guerra urbana, il secondo è che la situazione vada presto fuori controllo. Armare tutti, indiscriminatamente, non si è mai rivelata una saggia strategia. Né per il presente né, tanto meno, per il futuro.
Come sottolineano Stephen J. Flanagan, analista politico e Marta Kepe, analista della difesa, per il think tank Rand, «la resistenza armata può aumentare il rischio che l’avversario possa vendicarsi contro i civili, o almeno i civili sostenitori dell’esercito armato combattenti della resistenza. In più, l’esistenza di numerosi gruppi di resistenza che potrebbero non essere coordinati e potrebbero perdere la capacità di comunicare sotto gli effetti della guerra elettronica, può aumentare il livello di confusione sul campo di battaglia e quindi può ostacolare la capacità dell’Ucraina di raggiungere il suo obiettivo strategico generale».
Significa che, sebbene il governo ucraino stia cercando di controllare i gruppi di milizie di volontari integrandoli nelle organizzazioni statali, c’è il rischio che questo gruppi sfuggano di mano. Il precedente c’è, il Battaglione Azov a cui nel 2018 il Congresso degli Stati Uniti ha vietato l’assistenza americana a causa delle alleanze nazionaliste di estrema destra del gruppo.
Mikhail Shukav è un ingegnere. Nemmeno lui ha mai partecipato a una guerra, «è la prima volta che prendo in mano un’arma», dice in fila per iscriversi alle liste di reclutamento. «Dnipro è il posto dove sono nato, dove ho conosciuto mia moglie, dove mi sono innamorato di lei, dove ho cresciuto i miei figli e vado a correre con i miei amici. Dnipro è il posto dove mi fermo sul fiume a vedere il tramonto, la sera, quando torno dal lavoro. Questo è per me combattere, ora. Difendere tutto questo».
La moglie è in macchina, i figli a casa. Non riesce a spiegare cosa ha provato una settimana fa al rumore delle bombe. Nessuno è preparato a questo, non esiste un modo di prepararsi al suono delle sirene. Preferisce essere qui che stare a casa a nascondersi, dice, perché «la gente in tutto il mondo deve capire che questo è il punto di rottura, se perdiamo l’Ucraina adesso il mondo non sarà solo cambiato, sarà distrutto. Putin non si fermerà, questo vi deve essere chiaro».
È già successo, con la Georgia, con la Moldova. E ora sta accadendo con l’Ucraina. Chiede al mondo, che è già un mondo diverso da una settimana fa, di aprire gli occhi.
La preoccupazione di qualche mese fa è diventata una guerra, Mikhail è preoccupato che l’Occidente la accetti, che in qualche settimana, mese, diventi una storia normale: la guerra in Ucraina che scivolerà dalla prima alla quindicesima pagina dei giornali, per poi sparire. E ricominciare a parlare, serenamente, di affari.