Reportage
Ucraina, storia del villaggio che ha resistito
Andriivka: qui, nonostante le spie russe, l’avanzata verso Kiev si è fermata. Grazie ai cittadini. Che però hanno perso tutto. Ecco i loro racconti
Il 25 febbraio le armi erano pronte. Settanta uomini si erano uniti alla brigata della difesa territoriale del villaggio di Andriivka, a 14 chilometri a sud della cittadina di Borodyanka, sulla strada verso Kiev. Il 15 per cento dei 578 abitanti. I 25 uomini che avevano un fucile da caccia sapevano di essere gli unici combattenti. L’esercito non aveva fornito armi, nonostante le ripetute richieste. Non ce n’erano abbastanza per tutti i membri della Resistenza ucraina e questo piccolo villaggio di campagna avrebbe potuto essere al massimo una breve sosta dell’avanzata russa verso Kiev. «È allora che abbiamo capito che eravamo stati lasciati soli», dice Vitali Cercasov, il vicesindaco: «Dovevamo fare con quello che avevamo per proteggere le nostre famiglie».
Ma nessuno si aspettava quello che sarebbe successo. Quando la colonna di carri armati russi che dalla Bielorussia aveva raggiunto la cittadina di Borodyanka prende a scendere verso sud, puntando il loro villaggio, arriva una telefonata al sindaco Anatali Kibukevich: «Sono troppi. Non ce la farete mai a difendervi: scappate!». L’esercito aveva inviato solo quattro veicoli militari per fermare l’avanzata nel villaggio: tre auto blindate e una jeep. Venti uomini in totale. Sono morti prima che i blindati facessero il loro ingresso sulla via principale. «L’unico sopravvissuto si è unito a noi quindici, che facciamo parte delle Forze di resistenza territoriale, per scappare nei boschi».
Le Forze di difesa territoriale ucraine sono nate con la riorganizzazione delle milizie di volontari create durante la guerra del Donbass. Sono composte da riservisti, spesso ex militari, che, tra gli altri compiti, hanno anche quello di formare alla difesa del proprio territorio i volontari civili in caso di guerra. La maggior parte dei check-point è affidata a loro. Il governo di Zelensky avrebbe voluto entro marzo 10mila riservisti professionisti in grado di guidare 130mila cittadini. Ma, con l’inizio della guerra, il ministro della Difesa Oleksii Reznikov ha stimato che ne servissero almeno un milione e mezzo. Sono loro i partigiani della nuova Europa. Loro gli uomini, e qualche donna, ad avere sorpreso i russi, che si aspettavano una popolazione docile. Ad avere impedito la presa di Kiev.
Secondo i piani di Vladimir Putin, i carri armati provenienti dalla Bielorussia e quelli portati dagli elicotteri all’aeroporto cargo di Hostomel, a poco più di dieci chilometri da Kiev, avrebbero dovuto accerchiare la capitale da quattro punti diversi, tre a ovest e uno a est, oltre il fiume Dnepr, attraversare in fretta i villaggi dell’hinterland, arrivare in centro, sostituire un presidente in fuga con uno fedele alla Russia, uccidere gli oppositori e rientrare rapidamente in Patria. Invece si sono trovati davanti migliaia di cittadini disposti, più o meno consapevolmente, a perdere la vita per salvare la loro democrazia e la loro indipendenza. Alcuni hanno imbracciato il fucile, altri tirato bombe molotov, altri ancora si sono muniti di cellulare e di computer. Tutti strumenti di resistenza. Sono morti a centinaia durante i 30 giorni di occupazione russa nella provincia di Kiev, in paesini dai nomi tristemente familiari, come Andriivka, Makariv, Bucha, Hostomel, Vorzel, Borodyanka. Sono stati sommariamente giustiziati con un colpo alla nuca o negli occhi, spesso mani legate dietro la schiena, traditi dai collaborazionisti russi, ancora non tutti noti. Per ora ne sono stati scoperti un centinaio, la famosa quinta colonna su cui contava e conta ancora Putin: oltre una settantina sono politici, in un Paese in cui un quarto dei cittadini paga laute mance per ottenere servizi pubblici, gli altri poliziotti e giornalisti. Ci sono sindaci che sono morti per non essersi piegati alle richieste russe, come Olga Sukhenko e la sua famiglia a Motyzhyn, e sindaci di cui non è chiaro (ci sono versioni discordanti) dove fossero e cosa stessero facendo mentre oltre 400 concittadini erano massacrati, come Anatoliy Fedoruk, da 24 anni sindaco di Bucha, a Kiev soprannominato «il signor mazzetta» per la recente speculazione edilizia.
E poi ci sono Anatali e Vitali.
«Durante la notte la temperatura crollava al di sotto dello zero», racconta Vitali: «Per resistere al freddo ci sedevamo su alcuni rami spezzati intorno a un fuoco improvvisato, vicino a uno specchio d’acqua stretto tra alture, avendo cura che il fumo non fosse visto in lontananza. Ci stringevamo l’uno all’altro, schiena contro schiena». Il tempo di riscaldare le ossa e riparavano in qualche casa abbandonata. Poi, poco lontano dal villaggio, trovano un casolare con un forno a legna e ci rimangono per quattro giorni, uscendo quando albeggiava e rientrando a notte inoltrata. La notte faceva paura ai russi. Temevano attacchi a sorpresa. Così era di notte che i 15 cercavano il cibo abbandonato nelle case di chi fuggiva, per lo più patate e grasso di maiale. Di giorno si arrampicavano sulle alture per comunicare le posizioni russe all’esercito ucraino.
È anche grazie alle loro informazioni che il 7 marzo l’esercito ucraino bombarda le case occupate dai russi lungo l’unica via asfaltata di Andriivka. «Hanno colpito anche la nostra casa in cui dormivano gli ufficiali. Hanno ferito alcuni soldati e causato una contusione a mia madre che già aveva problemi di demenza», racconta Alona, 53 anni, moglie di Vitali, rimasta nel villaggio con la figlia Ieva, diciottenne, sua madre e il fratello disabile. Alona, che prima della guerra lavorava in una società di assicurazione e che ai tempi dell’Urss aveva studiato cibernetica, dopo giorni di interrogatori, era riuscita a convincere gli ufficiali che il marito fosse fuggito a Kiev, soffocando il desiderio di reagire alle provocazioni. Anche quando un ufficiale le aveva puntato una pistola alla testa, per poi sparare al soffitto, bere quattro bottiglie di vino e crollare addormentato. O quando le aveva chiesto di recitare a memoria Puskin, lei che aveva ricevuto una buona educazione. O quando si era intestardito a verificare la purezza della sua anima cercando icone religiose in camera da letto.
Il bombardamento della casa è l’occasione per chiedere agli ufficiali di potere evacuare il villaggio con l’auto di famiglia, ancora funzionante. Il permesso è accordato a patto che si leghino una striscia di stoffa bianca al braccio e dipingano una V, simbolo dell’invasione russa, sull’automobile. Non ce la fanno a caricare la madre malata e incosciente in auto e così la lasciano lì, sul letto di casa. Inseguiti dal rimorso, spinti dalla paura dello stupro. Escono dal villaggio e, qualche chilometro dopo, incontrano Vitali. Tempo di un bacio, di addio o di arrivederci non è chiaro.
L’attacco dell’esercito ucraino però terrorizza e incattivisce gli occupanti. «Perché ci sparate? Se ci aveste fatto passare non ci saremmo fermati qui e saremmo rientrati velocemente in Russia», aveva detto ad Alona il maggiore russo, nome di battaglia «Cardan». Ora i russi hanno la certezza di essere sorvegliati dagli abitanti del villaggio. Prendono a impedire a chiunque di uscire di casa e mettono cecchini sui tetti degli edifici più alti con l’ordine di sparare a vista. Anche la fascia bianca al braccio non salva più la vita. L’uso dei cellulari e di qualsiasi materiale elettronico è vietato. E non è permesso nemmeno alzare la testa oltre la cancellata di casa per osservare cosa succede per strada. I soldati cominciano a cercare i partigiani casa per casa, controllano il contenuto di tutti i cellulari prima di confiscarli. La traccia di una comunicazione con l’esercito, la fotografia di un carro armato o l’immagine di una divisa diventano sentenza di morte. Cercano tatuaggi sul corpo degli uomini e segni di una cicatrice. Ma non è qui che vivono i reduci della guerra in Donbass: molti di loro hanno scelto Bucha o Irpin, le cittadine più belle dell’hinterland, villette moderne costruite tra i pini, e condomini nuovi, colorati di verde e arancione, alcuni ancora in costruzione, con ampi centri commerciali, proprio accanto l’autostrada D-40 che porta nel cuore di Kiev. Andriivka è un villaggio più remoto e più umile. Al massimo gli uomini vanno a caccia.
I soldati russi non sono in vena di distinzioni. Quando il 12 marzo, quattro giorni dopo l’ordine di consegnare ogni strumento elettronico, gli trovano in casa un carica cellulare improvvisato con l’accumulatore del trattore, trascinano Vitali Kybuchevich, cugino del sindaco, nell’aia, gli legano le mani dietro la schiena con le stesse fascette bianche che nei giorni precedenti erano state un lasciapassare per la libertà, lo mettono in ginocchio e gli sparano un colpo in testa. Come lui, i compagni di resistenza sono identificati e uccisi, una decina i corpi ritrovati oggi, altri venti dispersi, forse in una fossa comune come quella scavata, ma non ancora riempita, nel giardino di Elena, la vicina.
Intanto nei boschi che avvolgono Kiev come un foulard comincia a nevicare. Perfino la primavera sembra avere paura di affacciarsi in Ucraina. E con la neve è più difficile nascondere le proprie tracce. I quindici sono informati che i russi hanno scoperto il nascondiglio. Qualcuno, si saprà poi chi, ha fatto la spia. Abbandonano la casa e entrano in un casale diroccato del villaggio accanto. È il 9 marzo. Il 17 lo lasciano di corsa: i russi lo hanno identificato. Non resta che tentare il tutto per tutto: attraversare il fronte e arrivare in territorio amico. «Abbiamo camminato per 35 chilometri su e giù per i boschi, senza fermarci. Non è facile non farsi prendere dalla paura». Non quando nel visore notturno appare un carrarmato russo e la sopravvivenza diventa questione di passi. Non quando il gelo paralizza i pensieri. Il soldato Gregory li sostiene. Fisicamente e mentalmente. Insegna loro a mantenere la calma. Fino a quando vedono le bandiere ucraine. È la fine dell’incubo.
Non per il resto del villaggio. Qui i cittadini sono diventati ostaggi. Le operazioni verso Kiev non avanzano e i soldati scaricano la rabbia contro gli occupati. Dalle case rubano tutto, non più solo soldi, gioielli, alcol, televisori e computer. Si portano via anche abiti e forni a microonde. Il resto lo spaccano, in spregio. Le cucine diventano latrine. Alcune donne con i figli sono portate nella scuola del villaggio, trasformata in quartiere generale e ospedale da campo. I russi temono l’artiglieria ucraina e vogliono scudi umani. Due ragazzine sono stuprate ripetutamente e poi uccise. Si dice che il loro ufficiale, un uomo della città di Khabavrosk, nella Russia orientale, abbia a sua volta ucciso gli stupratori. «Non siamo ceceni», avrebbe detto. Appaiono alcuni cadaveri per strada. Chi apre il cancello di ferro e cerca di fuggire è spacciato. Davanti alla casa di Vitali per due giorni giacciono tre corpi. Nessuno li raccoglie. Poi uno scompare. Ad Elena giunge voce che una donna anziana e malata sia stata portata da un soldato bielorusso qualche centinaio di metri più a valle, all’ospedale da campo. Spera che sia sua madre, sparita da giorni, ma non può uscire di casa a cercarla. Il 31 marzo, quando i russi abbandonano Andriivka, accorre. Sul letto dell’ospedale trova Alexandra Ivaniva, la madre settantenne di Alona, la moglie di Vitali, data per morta in casa, gettata per strada, poi soccorsa e ora viva. Della guerra lei, almeno lei, non ricorda nulla.