Intervista
«Malta era come uno Stato mafia: l’omicidio di mia sorella Daphne Caruana Galizia si poteva impedire»
«Lo Stato dovrebbe portarne la responsabilità. Si era creato un clima di impunità». Parla Corinne Vella, sorella della giornalista uccisa per il suo scoop
Soltanto un titolo: 17 Black – Il nome di una società costituita a Dubai. Sotto, le foto di quattro politici di Malta. Senza testo, senza spiegazioni. Solo quel lancio, un preannuncio dei primi risultati di un’inchiesta giornalistica sui segreti dei potenti dell’isola. Nel febbraio 2017, quando ha pubblicato quel pezzo sul suo blog, Daphne Caruana Galizia non sapeva di aver decretato la propria condanna a morte. È stata uccisa otto mesi dopo, il 16 ottobre, nella sua auto imbottita di esplosivo. Quella offshore, 17 Black, era la tesoreria segreta di Yorgen Fenech, l’imprenditore arrestato nel 2019 come presunto mandante e finanziatore dell'assassinio, materialmente eseguito da tre killer da lui assoldati. Nelle foto scelte da Daphne, accanto a John Dalli, ex commissario europeo, e Joseph Muscat, allora capo del governo, compaiono due politici che avevano aperto società a Panama per incassare milioni dalla 17 Black: Keith Schembri, il capo di gabinetto, e Konrad Mizzi, già ministro dell’Energia e poi del Turismo. Delle responsabilità politiche, dei buchi nelle indagini ufficiali, della libertà di stampa, L’Espresso ha parlato con Corinne Vella, la sorella della vittima, responsabile dei rapporti con i media nella Fondazione Daphne Caruana Galizia, che è diretta da Matthew, uno dei suoi tre figli, ex giornalista di Icij e, in questa veste, coautore nel 2016 dell’inchiesta Panama Papers.
Prima di Natale, il Dipartimento di Stato americano ha bandito Schembri e Mizzi: vietato entrare negli Usa, perché risultano «coinvolti in uno schema corruttivo per la costruzione di una centrale elettrica in cambio di tangenti». È lo scandalo su cui lavorava Daphne. Un riconoscimento. Ma è anche uno schiaffo della presidenza Biden per l’inerzia delle indagini maltesi.
«È un fatto incoraggiante, per la nostra famiglia, ma anche per il nostro Paese, che non è più solo. Daphne aveva scritto di Schembri e Mizzi nel 2016, dopo aver scoperto che erano collegati a due società offshore, menzionate nei Panama Papers e registrate a Panama tramite trust anonimi della Nuova Zelanda. Mizzi rispose che aveva intenzione di inserire il possesso della sua offshore nella dichiarazione dei redditi. E il premier Muscat confermò di averne visto una bozza. Il primo ministro, invece di chiedere le dimissioni di entrambi, li ha protetti, difesi. Questa è copertura».
Come mai Daphne si era concentrata su quella società di Dubai?
«Non credo che avesse notizie dettagliate sulla 17 Black. Aveva certamente intuito che ci potesse essere una connessione tra quella società e alcuni personaggi. Ora sappiamo che la 17 Black era stata usata proprio per i pagamenti alle offshore di Schembri e Mizzi».
Ci sono state responsabilità anche nella conduzione delle indagini?
«Sono emerse dall’inchiesta pubblica. È venuto fuori che Il capo dell'unità contro la criminalità economico-finanziaria, Ian Abdilla, non ha mai investigato. Il filone giudiziario sui Panama Papers si è protratto dal 2016 in avanti senza arrivare a nessun risultato. La realtà è che Abdilla è stato consigliato dall’attorney general, nel suo doppio ruolo di procuratore capo e consulente del governo: secondo Peter Grech, procedere oltre avrebbe creato problemi nel Paese».
Si è vociferato anche di una offshore, Egrant, attribuita a Michelle Muscat, la moglie del primo ministro allora in carica.
«Secondo un’indagine della magistratura non c'è nessuna prova che lei ne sia la proprietaria. Per averne la certezza, l’unica possibilità è identificare chi ne è titolare».
Nelle 447 pagine del rapporto finale sull'inchiesta pubblica, presentato all'attuale primo ministro Robert Abela nel luglio 2021, si leggono pagine che fanno rabbrividire. Quali punti le sembrano essenziali?
«Malta stava scivolando verso una situazione tale da essere etichettata come uno Stato di mafia. E l'uccisione di Daphne era prevista e poteva essere impedita. Lo Stato dovrebbe portarne la responsabilità. Si era creato un clima di impunità, fino ai più alti livelli delle istituzioni, polizia compresa. Risultato? Il collasso dello Stato di diritto».