La vittoria di Donald Trump non è stato solo uno errore passeggero ma il sintomo di incertezze, precarietà e divisioni interne agli Usa. Che declassano i diritti universali a opinioni. E rischiano di fare scuola

Gli Stati Uniti non mi hanno mai affascinata. Da adolescente non sognavo viaggi tra i grattacieli ma in posti con culture diverse, e così dopo gli studi tra Roma, Berlino e Parigi, sono partita a lavorare in Africa e Medio Oriente, con vacanze in Asia o America Latina. Mai gli Stati Uniti. Ma mi interfacciavo con loro ogni giorno. Lavoravo su crisi umanitarie con finanziamenti europei ma anche americani. Seguivo ogni loro annuncio o decisione politica perché avrebbe avuto ripercussioni sul mio lavoro e sulle vite di milioni di persone. Mi interfacciavo con la loro politica estera e con i loro militari, per strada in Iraq o nei bar la sera. Pian piano sono poi iniziati i miei primi viaggi di lavoro tra Washington e New York. Finché un giorno, nel 2018, ho deciso di lasciare la mia posizione dirigenziale a Ginevra per ritornare studentessa, alla Kennedy school of government di Harvard. Ed è così che è iniziata la mia esperienza degli Stati Uniti dall’interno. Con i Repubblicani al governo, molti politici e funzionari democratici erano venuti ad insegnare ad Harvard - per poi ripartire dopo le elezioni del 2020 a ricoprire ruoli apicali nel governo Biden. Come direbbero in America, «I learned from the best».

 

Con Trump e l’ascesa del populismo in Europa, si dibatteva a scuola di democrazia, populismo, diritti. Parlavano ancora con fierezza delle loro battaglie per esportare la democrazia e io non potevo non pensare alle conseguenze catastrofiche che avevo visto in Medio Oriente. Parlavano della forza della loro democrazia ed io, oltre all’autoritarismo di Trump, su cui eravamo tutti d’accordo, non capivo come non vedessero che il potere, negli Stati Uniti, venisse tramandato tra dinastie. Parlavano come se fossero il Paese dei diritti e delle libertà, quando era chiaro che esistevano quasi solo su carta - come dimostrato dal MeToo e dal Black lives matter, emersi durante i miei 2 anni a Boston. 

 

L’autoreferenzialità era alle stelle, e accecava tanti dal vedere e affrontare la realtà: Trump non era uno sbaglio incomprensibile – di cui ridere per non piangere – ma un segnale di incertezza, precarietà e divisioni profonde, nonché un inizio di un trend di polarizzazione che avrebbe dominato gli anni a venire. Un trend a cui bisognava rispondere, democratici e repubblicani insieme. Ritrovando il bi-partisanship che ha segnato la politica di molti Presidenti americani – quell’american dream che ha reso gli Stati Uniti il Paese più ricco e potente al mondo nel giro di pochi decenni. Il risultato di questo accecamento lo stiamo testimoniando in queste settimane: non si è riusciti a ricostruire il tessuto sociale e la divisione è ormai così radicata nelle istituzioni e partiti da non riuscire più a lavorare per il bene del Paese. I massacri di bambini non bastano a riformare (e fermare) l’utilizzo delle armi. I diritti costituzionali, come l’aborto, sono stati declassati da diritti a una questione di opinione. Le testimonianze del colpo di stato del 6 gennaio confermano che neanche la democrazia sembra essere un ideale condiviso. Con una minoranza (tra giudici, senatori, lobby e funzionari che controllano i processi elettorali) posizionata dai Repubblicani in ruoli chiave, i Democratici non riescono a reagire e far avanzare la propria agenda. I media e la società civile provano a compensare ma con il limite che possono dire più che fare.

 

E così gli index globali della democrazia hanno declassato gli Stati Uniti dal 2016 ad oggi: sono al livello di Panama e Romania, sorpassati dall’Argentina e la Mongolia. La più grande democrazia al mondo (almeno così si è sempre auto-percepita), che si vantava di esportare diritti ed istituzioni, sembra oggi più fragile che mai. Facendo crollare un baluardo globale sulla funzionalità e stabilità del modello democratico e lasciandoci tutti sotto shock.

 

Cosa ci aspetta quindi? Come esperta di policy, politica estera e anche di Stati Uniti, lo scenario più probabile è una crisi della democrazia americana per gli anni a venire. Come analizzato per Foreign Affaires da Steven Levitsky, professore di Governo ad Harvard, ci si deve aspettare un’alternanza tra democrazia e «autoritarismo competitivo» – con elezioni ma anche abusi di potere da parte dell’esecutivo. Con un ruolo cruciale dei media, della società civile e delle parti ancora indipendenti del legislativo nell’arginare questa alternanza e far sì che anche se gli Stati Uniti non sono più un porto sicuro per la democrazia, rimangano perlomeno inospitali all’autoritarismo vero e proprio.

 

Nel 2020 pubblicavo un articolo sulla Kennedy school review, intitolato “Polarizzazione e speranza: cosa gli Stati Uniti possono imparare dall’Italia”. Come millennial, parlavo delle divisioni valoriali in cui sono cresciuta e degli abusi dell’era Berlusconi, e suonavo l’allarme sul fatto che sia un circolo vizioso difficile da spezzare: speranza e visione comune sono gli ingredienti imprescindibili per farlo ma in Italia nessuno è riuscito ancora.

 

Oggi scrivo questo pezzo in senso contrario: per far riflettere noi su cosa possiamo imparare dagli Stati Uniti. L’America è l’esempio lampante di qual è lo scenario che ci aspetta se non saremo capaci di cambiare passo. Mai prendere i nostri diritti per certi, dall’aborto che rimane spesso su carta, al razzismo e sfruttamento dei migranti che dilagano in Italia, fino al diritto alla cittadinanza che neghiamo a tante e tanti (nei fatti) italiani: dobbiamo cambiar passo. E mai prendere la nostra democrazia per un dato di fatto: è già disfunzionale e con le elezioni in vista rischiamo di vedere una polarizzazione partitica che amplierà divisioni nelle nostre case e comunità piuttosto che colmarle, portandoci pericolosamente vicini allo scenario americano. Sta quindi ad ognuno di noi diventare un argine, organizzandoci per eleggere nel 2023 una classe politica capace di lavorare insieme per il bene del Paese, spezzando questo circolo vizioso come unica via per proteggere la nostra democrazia.