Medio Oriente
Il Libano è a due passi dalla guerra
Nel Sud Hezbollah e israeliani si confrontano in armi. Gli abitanti sono divisi tra il sentimento di solidarietà con i palestinesi e il timore di un conflitto che sarebbe devastante per il Paese
Sul lungomare di Beirut qualche bagnante si gode gli ultimi residui dell’estate, mentre gli studenti affollano i bar e il traffico ingorga le strade. Nel brusio della città, ciascuno si affaccenda con la vita di tutti i giorni. La «situazione a Sud», però, è sulla bocca di tutti. Lo sguardo del Paese è infatti da ormai un mese rivolto al confine tra Libano e Israele, ad appena un centinaio di chilometri di distanza da Beirut, dove la tensione resta alta e la situazione potrebbe precipitare da un giorno all’altro.
L’8 ottobre, il giorno dopo l’attacco di Hamas e l’inizio dei bombardamenti israeliani su Gaza, le forze armate del movimento sciita Hezbollah hanno attaccato le posizioni dell’esercito israeliano nella regione delle Fattorie di Shebaa. Rivendicata dal Libano come parte del proprio territorio, è occupata da Israele dal 1967. L’attacco, che Hezbollah ha dichiarato di aver compiuto «per liberare la parte ancora occupata del nostro territorio e in solidarietà con il popolo palestinese», ha dato inizio a settimane di scontri militari, che a oggi restano contenuti nel Sud del Paese ma che hanno già causato, dal lato libanese, la morte di almeno 14 civili e lo sfollamento di quasi 20 mila persone dai centri abitati a ridosso del confine.
Se da un lato la stragrande maggioranza della popolazione libanese condivide la solidarietà alla causa palestinese, così come la volontà di annettere la regione delle Fattorie di Shebaa, dall’altro non vuole arrivare a una vera e propria guerra con Israele. «Sostenere una causa e combatterla militarmente sono due cose diverse», dice la ricercatrice Aurélie Daher. La ricercatrice spiega che il sostegno alla causa palestinese è un fattore di unità per un Paese storicamente molto diviso, in cui le comunità delle 18 religioni riconosciute ufficialmente sono spesso in disaccordo e in conflitto tra loro; allo stesso tempo, secondo Daher, «i libanesi non sono pronti a pagare un prezzo così pesante, come è stato in passato, per i palestinesi».
Tra Libano e Israele, infatti, scontri e conflitti si sono susseguiti dal 1948, anno della creazione di Israele, quando il Libano assieme agli altri Paesi arabi della regione ha attaccato Israele. Durante la guerra civile libanese del 1975-1990, Israele ha invaso il Libano, prima nel 1978 e poi nel 1982: in entrambe le occasioni l’obiettivo dichiarato da Israele era l’annientamento dell’Olp (Organizzazione per la Liberazione della Palestina), che si era insediata in Libano e da lì sferrava attacchi contro Israele. In seguito a queste invasioni, Israele ha continuato a occupare il Sud del Libano: è durante l’occupazione israeliana del Paese e in contrapposizione a essa che è nato ed emerso Hezbollah, movimento e partito politico islamico sciita legato all’Iran. Nel 2000, l’impegno militare di Hezbollah ha portato al ritiro delle truppe israeliane dal Libano, aumentando la popolarità del movimento nel Paese. Ma anche dopo la fine dell’occupazione israeliana gli scontri tra Hezbollah e l’esercito israeliano sono continuati, soprattutto nell’area delle Fattorie di Sheeba; l’ultima guerra su larga scala risale al 2006 e ha avuto un bilancio molto pesante soprattutto per i civili libanesi: l’invasione militare e i massicci bombardamenti israeliani hanno infatti causato duemila vittime civili in Libano.
Marcel è un cittadino libanese appartenente alla comunità cristiana, ha 68 anni e ha vissuto la guerra civile libanese e le varie invasioni israeliane del Paese. «È vero che Israele occupa parte del nostro territorio nel Sud, ma oggi il Libano non ha nulla a che fare con questa guerra», dice. «Il Libano è l’unico Paese che aiuta i palestinesi nella loro causa, ma abbiamo pagato un prezzo troppo alto. Ne abbiamo abbastanza della guerra. In più adesso c’è la crisi economica, siamo ridotti a uno scheletro. La gente ha fame, è disoccupata. Come possiamo permetterci una guerra?».
Dal 2019, infatti, il Libano affronta una crisi economica descritta dalla Banca Mondiale come una delle peggiori della storia moderna: l’inflazione è oltre il 200% e dal 2019 a oggi il Pil del Paese si è contratto per circa il 40%, mentre la lira libanese ha perso il 98% del suo valore. Il Paese si trova inoltre in uno stallo politico, senza un presidente della Repubblica e con un Gabinetto solo parzialmente abilitato. A lasciare cicatrici nel Paese è stata anche l’esplosione nel porto di Beirut dell’agosto 2020, che ha ucciso più di 200 persone, ferito altre settemila e distrutto diversi edifici della città.
Anche tra i libanesi sciiti, la comunità di cui Hezbollah si proclama riferimento politico e che nella storia del Paese è stata più fortemente allineata con la causa palestinese, molti sono preoccupati e pessimisti di fronte a una possibile escalation con Israele. «Se abbandoniamo Gaza in questa guerra, potremmo essere i prossimi, ma un’escalation su larga scala sarebbe la fine di questo Paese», dice Mohammed, di 27 anni, che nonostante il fermo supporto alla causa palestinese teme che il Libano non sarebbe in grado di affrontare una guerra, «molti hanno perso tutto nel 2006 e hanno appena finito di pulire la polvere della guerra, e adesso il pericolo è ancora più grande. E il Paese nel frattempo ha affrontato la crisi economica, l’inflazione, l’esplosione al porto di Beirut».
Per questi motivi, venerdì 3 novembre molti nel Paese sono stati sollevati dal discorso del leader di Hebollah Hassan Nasrallah, tanto atteso dall’inizio delle ostilità. Nasrallah ha ribadito il sostegno alla causa palestinese e a Hamas contro lo stato di Israele, ma non ha annunciato alcuna escalation.
A favore di un’escalation del conflitto tra Hezbollah e Israele sono invece molti degli oltre 250 mila rifugiati palestinesi. Mohammed ha 23 anni, è nato e cresciuto a Beirut da genitori palestinesi, fuggiti in Libano in seguito alla creazione dello stato di Israele. «Come palestinese in Libano, sento che dovremmo aiutare i palestinesi in ogni modo possibile», dice Mohammed, che considera anche la possibilità di un’escalation militare.
I profughi palestinesi in Libano, così come i loro figli o nipoti nati in Libano, non hanno diritto alla cittadinanza libanese, e spesso vivono in situazioni di povertà nei campi profughi in cui negli ultimi anni sono arrivate altre centinaia di migliaia di rifugiati siriani. Anche per chi non ha mai messo piede in Palestina, l’identità palestinese è molto forte, il sogno di tornare ancora vivo e la vita in Libano percepita come un esilio.