Medio Oriente in fiamme
«Qui a Gaza non si dorme per la paura e per la fame. Ci sono case con duecento persone dentro, schiacciate per evitare le bombe»
Da quando la tregua è finita, i combattimenti nella Striscia sono diventati ancora più intensi. E per i civili non c'è più spazio. Il 70 per cento delle vittime sono donne e bambini
«La guerra è ricominciata più forte di prima», racconta Sami Abu Omar, il coordinatore del Centro italiano di scambio culturale Vik Vittorio Arrigoni, da Khan Yunis, la seconda area urbana più popolata della Striscia dopo Gaza City. Si trova al Sud, distante una decina di chilometri dal confine con l’Egitto.
Dallo scorso 8 ottobre, quando Israele ha iniziato a lanciare bombe sulla Striscia – 6 mila solo nei primi 6 giorni – e ancora di più dall’alba del 13 ottobre, quando le Idf, Forze di difesa israeliane, hanno ordinato l’evacuazione di tutta l’area nord, il numero di persone costrette a lasciare le proprie abitazioni o rimaste senza casa a causa dei bombardamenti è arrivato a 1,9 milioni. Su una popolazione di 2,3. Più del 75 per cento del totale, chiarisce l’Onu: «Anche se tenere il conteggio preciso è oneroso».
La maggior parte degli sfollati si è rifugiata nell’area di Khan Yunis, negli edifici rimasti in piedi. Che sono meno della metà di quelli che esistevano prima dell’inizio dell’operazione “spade di ferro”, la risposta militare israeliana all’attacco di Hamas. Più di 300 mila abitazioni sono state colpite durante i raid, secondo i dati riportati da Al Jazeera: 339 scuole, 167 luoghi di culto. Almeno 26 su 35 gli ospedali che hanno smesso di funzionare. Oggi «inondati dai cadaveri», hanno dichiarato i funzionari del ministero della Sanità di Gaza.
«Ci sono fino a 200 persone che vivono dentro lo stesso appartamento», racconta Abu Omar, con un filo di voce, stremato da giorni di bombardamenti non stop. Comunica con il mondo fuori ogni volta che può, ma solo pochi minuti per non scaricare il cellulare. Non smette di farlo neanche mentre i carri armati varcano il confine della sua città, le bombe piovono senza cura, l’operazione di terra dell’esercito israeliano si allarga anche nel Sud di Gaza. Consapevole che i racconti di chi è rimasto nella Striscia – giornalisti, cooperanti, civili – sono indispensabili, l’unico modo per sapere che cosa succede a Gaza dallo scorso 7 ottobre. Visto che ai media internazionali l’accesso è vietato, se non a bordo dei tank israeliani. In contrasto con la libertà di informazione e anche contro quanto sancito dal diritto internazionale: «Come denuncia Reporter Senza Frontiere, le uccisioni di giornalisti a Gaza non sono un effetto collaterale del conflitto, ma un obiettivo, un modo per cancellare i testimoni di quel che sta succedendo in quel martoriato lembo di terra. Una strage nella strage», aveva detto Alessandra Costante, segretaria generale della Federazione nazionale della stampa, per ricordare che 61 reporter e operatori dei media sono morti dall’inizio dei combattimenti, secondo Cpj, il Comitato per la protezione dei giornalisti. E in occasione della diffusione della raccolta firme sostenuta da centinaia di professionisti in tutto il mondo per chiedere a Israele di consentire l’accesso dei giornalisti nella Striscia, per garantire al mondo una visione completa di ciò che sta accadendo.
«Non si dorme per la paura, per il rumore. Per la fame». Da quando è finita la tregua, il 1° dicembre, e sono falliti i negoziati tra il governo di Netanyahu e i leader di Hamas, i camion con gli aiuti umanitari entrano di nuovo con difficoltà, bloccati da ore di attesa al valico di Rafah. «I negozi sono vuoti. Zero merci da vendere. Le banche non funzionano. Zero soldi per vivere. Per cucinare, per scaldarci tagliamo gli alberi e accendiamo i fuochi. Così stanno aumentando anche gli incendi», spiega ancora Abu Omar.
Da quando la tregua è finita, anche il carburante è tornato a scarseggiare. Le strade sono piene di spazzatura perché le ruspe per la raccolta non passano. Le stesse che dovrebbero servire per spostare le macerie e raggiungere le persone sepolte sotto gli edifici crollati per le bombe. Migliaia i dispersi secondo le stime della Mezzaluna Rossa. Molti probabilmente morti, che si aggiungono alle oltre 16 mila vittime conteggiate delle autorità di Hamas. Il 70 per cento delle quali sono donne e bambini.
«Le fogne non funzionano bene, il rischio di epidemie è molto alto perché l’igiene è scarsissima, manca l’acqua, i rifugi sono stracolmi», racconta Abu Omar. Sono soprattutto le scuole a essere diventate il luogo di riparo degli sfollati, piene ben oltre il limite delle loro capacità: servono ore e ore di fila solo per arrivare in bagno. Secondo le stime che risalgono ai giorni precedenti alla tregua, nei rifugi gestiti dall’Unrwa, in media c’era un bagno ogni 150 persone. Una doccia ogni 700. Per dormire si fanno i turni, cosicché ciascuno possa avere, per almeno un paio d’ore, lo spazio sufficiente a stendersi.
La situazione che descrive Abu Omar da quando l’offensiva israeliana è ricominciata è perfino peggiore: «Le Idf hanno ordinato di evacuare Khan Yunis, hanno fatto piovere i volantini dal cielo e mandato messaggi vocali preregistrati per comunicarci di andare più a Sud. Ma è impossibile. Ci invitano a raggiungere luoghi sicuri per salvarci. Che, però, non esistono a Gaza. A Rafah non c’è più neanche lo spazio per mettere un piede, dove dovremmo andare?».
A Rafah, poi, le bombe cadono lo stesso. Così le migliaia di gazawi che hanno provato ad assecondare l’ordine di evacuazione sopravvivono sempre più strette in sempre meno spazio. Sempre più a fatica. E vivono nel terrore: nel Sud della Striscia esplode una bomba ogni dieci minuti, secondo l’Unicef. «Quello in corso è il peggior bombardamento della guerra finora. Stiamo assistendo a enormi perdite di bambini», ha ribadito ancora una volta James Elder, il portavoce del fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia. La Striscia è il posto peggiore al mondo per essere un minore.
Proprio per impedire che il conflitto distrugga anche il futuro, oltre al presente, di un popolo, il medico di Lampedusa Pietro Bartolo, oggi europarlamentare, l’artista Fiorella Mannoia e Salvatore Amato, il presidente dell’Ordine dei medici di Palermo, si sono fatti promotori di un appello al governo italiano affinché ai neonati coinvolti nella guerra che insanguina la Striscia di Gaza venga offerta la cittadinanza italiana. «Non riusciamo a sopportare il pensiero che siano proprio i bambini, israeliani e palestinesi senza distinzione, a pagare il prezzo più alto di questa guerra. Facciamo in modo che possano venire in Italia per vivere e non per morire», si legge nel testo della richiesta, a cui hanno aderito tante associazioni italiane, come Arci, Libera e anche L’Espresso: «Chiediamo di creare un corridoio umanitario continuo e sicuro che valga almeno per loro, i neonati e le loro famiglie, e per le donne che devono partorire. Offriamo loro, e offriamo anche a noi stessi, una risposta di umanità. Il diritto alla vita è il primo dei diritti dell’infanzia che la comunità internazionale ha il dovere di riconoscere e garantire».
Ma il numero di bambini vittime dell’odio tra Israele e Hamas non cresce solo a Gaza. Centouno i minorenni palestinesi morti quest’anno in Cisgiordania per mano di soldati o coloni israeliani, 39 i bambini israeliani uccisi, secondo Save the Children: «Mentre tutti gli occhi sono puntati sul conflitto a Gaza, non c’è stata alcuna pausa nell’uccisione di bambini in Cisgiordania, dove la situazione continua a peggiorare. Più a lungo continuano le uccisioni di civili a Gaza, maggiore è la probabilità che queste continuino a diffondersi in Cisgiordania, dove i bambini stanno già vedendo i loro diritti sminuzzati», ha detto Jason Lee, il direttore dell’Ong nei territori palestinesi occupati.
E più a lungo continuano le operazioni militari lungo la Striscia, più cresce il pericolo che il conflitto infiammi anche il resto del Medio Oriente. «Se i crimini di guerra commessi dal regime israeliano a Gaza e in Cisgiordania non verranno fermati, è probabile che la portata della guerra nella regione si approfondisca e si espanda», ha detto il ministro degli Esteri iraniano Hossein Amir Abdollahian al telefono con Josep Borrell, l’Alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza.
Intanto si intensificano i razzi lanciati dal Libano verso Israele, le proteste nella capitale Beirut a sostegno del popolo palestinese, gli attacchi degli Houthi, i ribelli dello Yemen sostenuti dall’Iran, alle navi che attraversano il Mar Rosso: «Le forze armate yemenite continuano a impedire alle navi israeliane di navigare finché non si fermerà l’aggressione contro i nostri fedeli fratelli nella Striscia di Gaza», ha commentato il generale Yahya Saree, portavoce militare degli Houthi.
Si moltiplicano anche rumors su un possibile coinvolgimento della compagnia militare privata Wagner nel conflitto, per il possibile trasferimento di un sistema di difesa aerea mobile, il Pantsir-S1, alla milizia libanese Hezbollah dalla Siria, dove le truppe della Wagner hanno avuto un ruolo importante nel sostenere il leader del Paese, Bashar al-Assad, alleato del presidente russo Vladimir Putin. Un’ipotesi anticipata dal Wall Street Journal, confermata dal portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale Usa a un ristretto gruppo di giornalisti a fine novembre.
Eppure, neanche le preoccupazioni americane stanno scoraggiando Tel Aviv. «Siamo determinati a eliminare Hamas ovunque si trovi: a Gaza, in Cisgiordania, in Libano, in Turchia, nel Qatar o altrove. Richiederà anni, ma saremo presenti», ha detto in tv Ronen Bar, il capo dello Shin Bet, l’intelligence israeliana. Mentre in Occidente cresce la paura per il terrorismo, la diplomazia internazionale preme per fermare la strage di civili, sempre più piazze nel mondo si riempiono di persone che chiedono di cessare il fuoco.