Andrea De Domenico, responsabile Onu per i territori occupati, descrive il conflitto in Medio Oriente una «tragedia umana di proporzioni immense». Vaste aree sono impossibili da raggiungere per chi offre assistenza umanitaria. E preoccupa ciò che accade in Cisgiordania

Il nuovo conflitto in Medio Oriente rappresenta una tragedia umana di proporzioni immense. Circa 1.200 vittime in Israele, oltre 19.000 a Gaza. Bisogna fermare l’orrore della guerra». Andrea De Domenico, direttore dell’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli affari umanitari nei territori palestinesi occupati rilancia l’appello che da Gerusalemme, in collegamento con Assisi, ha consegnato alla “Marcia della Pace” promossa dalla Fondazione “PerugiAssisi” nella Giornata mondiale per i diritti umani, il 10 dicembre. 

 

«L’intera popolazione – spiega a L’Espresso il funzionario Onu da oltre vent’anni sul fronte dell’assistenza umanitaria in luoghi di conflitto – è costretta in uno spazio sempre più ristretto nella parte sud dove sopravvive in condizioni estremamente difficili. Il numero delle vittime aumenta ogni giorno. Se finora migliaia di persone sono state uccise dai bombardamenti e dai combattimenti, presto inizieranno a morire per la mancanza di cibo, di servizi igienici, per l’insufficienza di cure mediche e rifugi adeguati. Il sistema sanitario è stato in gran parte distrutto e l’inverno aggrava ulteriormente le sofferenze. I centri di accoglienza per gli sfollati sono strapieni. Ci avviciniamo a una catastrofe igienico-sanitaria. E la comunità umanitaria non dispone delle condizioni minime necessarie per adempiere al nostro mandato e salvare vite umane. Molte aree sono semplicemente inaccessibili per le Nazioni Unite e i nostri partner». Ma anche dove è possibile operare tutto diventa difficile: «Non possiamo farlo liberamente e mancano le condizioni di sicurezza. Gli aiuti che entrano a Gaza non possono essere distribuiti adeguatamente e secondo i criteri che normalmente utilizziamo. Non possiamo pianificare le nostre operazioni e identificare con precisione chi sia più bisognoso. Non abbiamo possibilità di fare sopralluoghi e verifiche in anticipo. Dobbiamo invece approfittare delle occasioni che si presentano per accedere a una determinata zona della Striscia. Questo è ben lontano da come dovrebbe essere. Le condizioni imposteci dall’esercito israeliano sono inadeguate per poter gestire un’assistenza umanitaria».

E se nella Striscia la situazione è già collassata, preoccupa ciò che accade in Cisgiordania. «Sono due parti di un unico territorio. Quello che succede in una parte, influenza l’altra». Anche per questo, la violenza in Cisgiordania aumenta e anche lì, Gerusalemme Est inclusa, il numero dei morti segna un record. «Sino a ora, abbiamo contato oltre 446 vittime in Cisgiordania, di cui 109 bambini. La maggior parte (265) sono state uccise dopo l’attacco di Hamas: un segno evidente del legame con quegli eventi». Eppure, ufficialmente la guerra lì non è arrivata. «In Cisgiordania non siamo in uno stato di guerra, ma alcune delle attività di mantenimento dell’ordine pubblico e di polizia svolte dalle forze israeliane sono attuate con metodi e modalità simili a quelle usate nei conflitti. Abbiamo assistito a un aumento dell’utilizzo di attacchi aerei (droni) in quartieri residenziali, scambi a fuoco tra le forze israeliane e palestinesi armati, ma anche sparatorie contro semplici manifestanti. Dal 7 ottobre sono stati uccisi i due terzi dei palestinesi morti in Cisgiordania durante operazioni di “ricerca e arresto” e altre azioni delle forze israeliane, con 3.000 feriti e oltre 3.500 arrestati. Anche la violenza dei coloni è in aumento».

Negli ultimi due mesi, l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli affari umanitari ha registrato 331 attacchi di coloni contro palestinesi con vittime e feriti, ma anche danni a proprietà e infrastrutture. «Non abbiamo mai registrato questi numeri in passato. In un terzo di questi incidenti abbiamo verificato la minaccia o l’utilizzo di armi da fuoco. E, in quasi la metà di tutti gli incidenti registrati, le forze israeliane erano presenti accompagnando, o evidentemente proteggendo, gli aggressori. Questo non solo genera un sentimento di insicurezza, ma spinge anche ad abbandonare le proprie case. Dal 7 ottobre oltre 1.000 persone, di cui circa 400 bambini, hanno lasciato le proprie abitazioni a causa della violenza dei coloni e delle restrizioni all’accesso a quelle aree. Quindici comunità di pastori hanno abbandonato la terra dove da generazioni avevano vissuto. In molti casi, i coloni israeliani armati hanno minacciato le famiglie: intere comunità si sono svuotate. A questo vanno aggiunti gli sfollamenti illegali causati dalle demolizioni di abitazioni effettuate dalle forze israeliane».

Episodi e numeri che chiamano all’impegno anche su quel versante chi si occupa di assistenza umanitaria. Cure ma anche difesa del diritto dei palestinesi a rimanere nelle case dalle quali li si vorrebbe cacciare. E l’Onu ha il mandato di aiutare sia gli sfollati sia i pochi coraggiosi che resistono e restano nei territori occupati. «Questo conflitto rappresenta una tragedia umana di proporzioni immense – conclude De Domenico – quello del 7 ottobre è stato un atto di brutale violenza, di proporzioni inimmaginabili, da condannare in maniera forte e netta. Semplicemente intollerabile. È essenziale, però, che tutte le parti coinvolte in questo conflitto rispettino il diritto internazionale umanitario e proteggano le persone e le infrastrutture civili. La violenza attuale, incluso il lancio indiscriminato di razzi contro Israele e i bombardamenti a Gaza (una delle zone a più alta densità al mondo), solleva serie preoccupazioni sul rispetto di queste norme. È fondamentale fermare le ostilità in modo permanente, assicurando protezione e assistenza ai civili». Un appello che al pari degli altri è finora caduto nel vuoto.