Economia
Perché la "dollarizzazione" dell'Argentina di cui parla Javier Milei rischia di essere un disastro
Sostituire il peso col dollaro potrebbe innescare recessione e paralisi dell’apparato statale. E il no alla partnership commerciale con la Cina rivelarsi un boomerang
Afflitta dall’ennesima crisi economica, da una inflazione annuale al 142% e da una siccità senza precedenti che ha causato danni per 20 miliardi di dollari, l’Argentina ha scelto per risollevarsi le ricette economiche radicali dell’anarco-capitalista Javier Milei, l’eccentrico e controverso leader del partito “Libertad Avanza”, che ha sconfitto al ballottaggio il peronista Sergio Massa.
Il neoeletto si propone di dismettere quasi integralmente il welfare statale, di liberalizzare vari settori economici e di realizzare massicce privatizzazioni. Ma la riforma più sconvolgente del suo programma è la sostituzione dello svalutato peso argentino col dollaro statunitense. In questo modo, sostiene, porrebbe fine all’iperinflazione, male endemico del Paese, che dal 1945 a oggi, a eccezione degli anni Novanta, è sempre stata superiore al 10% annuo. La perdita della sovranità monetaria non permetterebbe di stampare più moneta. Solo facendo così l’Argentina ritroverebbe la stabilità finanziaria, riuscirebbe ad attirare capitali esteri e il rimpatrio di circa 200 miliardi che, secondo Milei, gli argentini tengono all’estero in valuta pregiata.
Questo esperimento monetario non è nuovo in Sudamerica. L’Ecuador nel 2000 sostituì al sucre, la sua valuta nazionale, il dollaro Usa. Inizialmente l’impatto fu devastante a causa della mega-svalutazione del sucre. Prima di allora per un dollaro servivano 5 mila sucre, ma subito dopo 25 mila. Tuttavia, secondo i dati della Banca Mondiale, l’inflazione in Ecuador è calata drasticamente dal 96% del 2000 al 12% nel 2002 e la percentuale di popolazione sotto la soglia di povertà è scesa dal 45% del 1998 al 28% del 2021.
L’Argentina, però, per sostenere una dollarizzazione completa dell’economia, come sottolineano diversi analisti, dovrebbe detenere sufficienti riserve in dollari. Secondo Milei sarebbero necessari tra i 40 e i 90 miliardi di dollari di riserve. A oggi, però, secondo l’Economist, le riserve nette in dollari della Banca centrale argentina sono in rosso di 5 miliardi. La trasformazione del costo della vita in dollari, poi, potrebbe ulteriormente impoverire le famiglie argentine con salari e pensioni non allineati all’incremento del costo della vita, causando una violenta recessione.
Inoltre, non controllare più la politica monetaria non abbatte da sola la spesa o il debito pubblico, ma limita solamente le possibilità di intervento nell’economia in caso di crisi finanziaria, rendendo il Paese dipendente dalla politica monetaria (e dal livello di inflazione) statunitense. Per di più, non potendo più emettere debito, se non in dollari, l’Argentina potrebbe avere problemi a sostenere la pubblica amministrazione e i ben 23 milioni di dipendenti pubblici.
Se da una parte la dollarizzazione ha dato negli anni i suoi frutti in Ecuador, dall’altra in un Paese come l’Argentina, viste le difficoltà a finanziarsi in valuta forte e la dipendenza del mercato del lavoro dal settore pubblico, potrebbe essere difficilmente applicabile o a costi socialmente inaccettabili.
La dollarizzazione, poi, sconvolgerebbe anche i rapporti di politica estera. Il governo uscente aveva posto le basi per l’entrata nei Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) che stanno portando avanti un processo di de-dollarizzazione con l’obiettivo di creare una moneta alternativa. L’utilizzo del dollaro da parte di Buenos Aires metterebbe a rischio la stessa adesione dell’Argentina ai Brics fortemente voluta da Pechino. Ma che Milei ora vuole stracciare. In campagna elettorale, del resto, ha dichiarato apertamente che non avrebbe fatto accordi commerciali con i comunisti cinesi.
Tuttavia la Cina è uno dei principali partner commerciali argentini con esportazioni arrivate, nel 2022, a 8 miliardi di dollari, il 9% del totale. Verso il Paese asiatico è diretto il 92% dell’export di soia, il 57% della carne e il 59% dell’orzo. E Pechino ha investito nel Paese sudamericano. Lo ha fatto specialmente nell’industria estrattiva del litio, di cui l’Argentina è uno dei maggiori produttori mondiali, arrivando a controllare, tramite l’azienda Ganfeng Lithium, due importanti giacimenti e con l’ingresso di Buenos Aires, nel febbraio 2022, nella “Nuova via della seta”, con la promessa di 24 miliardi di dollari di investimenti.
Questa nuova politica estera argentina piace agli Usa, spaventati dalla presenza crescente di Pechino nel loro «cortile di casa». Per lo sviluppo dell’industria estrattiva, invece, una collaborazione con la Ue potrebbe portare benefici sia in termini di posti di lavoro sia di sostenibilità della stessa, a differenza del modello cinese che punta a raffinare la materia prima in casa senza creare posti di lavoro all’estero. Chiudere, però, completamente i canali con la Cina potrebbe rivelarsi controproducente.
Non va dimenticato, poi, che dei circa 23 miliardi di riserve lorde in valuta estera dalla Banca centrale argentina, secondo il Fondo monetario internazionale, circa 6,5 miliardi provengono da uno swap creato nel 2014 con la Banca centrale cinese, senza il quale le riserve sarebbero ancora più esigue. Buenos Aires, quindi, è necessariamente legata a Pechino. Per sconfiggere l’inflazione e far ripartire il Paese Milei avrà bisogno non solo di Washington, ma anche dei «comunisti» cinesi.