Il 10 febbraio è la data dedicata alla rievocazione delle vicende avvenute nel secolo scorso nell’Alto Adriatico. La memoria di questa tragica pagina di storia è difficile. E spesso strumentalizzata

Il 10 febbraio è una data del calendario civile italiano: il Giorno del ricordo. Nel corso di formazione per insegnanti organizzato l’autunno scorso dall’Istituto pavese per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea, la sfida è stata quella di andare al di là delle sovraesposizioni mediatiche e delle ingerenze politiche, che non aiutano, ma al contrario allontanano la piena comprensione delle vicende avvenute nel corso del Novecento nell’Alto Adriatico.

 

Il ragionamento di lungo periodo, proposto agli insegnanti, è stato quello di riflettere sul tema che proprio la legge istitutiva del Giorno del ricordo, del 2004, indica come «la tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo Dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale». Perché in questa tragica pagina di storia non c’è solo una memoria difficile e complessa, ma, come ha suggerito Guido Crainz, c’è in «quel confine tormentato tutto il nostro Novecento».

 

Ci sono i nazionalismi e i processi di nazionalizzazione, dove uno spirito discriminatorio e per nulla inclusivo troppo a lungo ha soffiato sul Vecchio Continente; c’è il trauma della Prima guerra mondiale, con la «italianizzazione forzata» imposta dal fascismo alle popolazioni slovene e croate; ci sono la violenza e la brutalità dell’occupazione nazista e fascista della Jugoslavia nel 1941; c’è la tragica lezione della Seconda guerra mondiale, una guerra totale, in cui veniva meno la distinzione tra militari e civili, dove l’imbarbarimento del conflitto, specie sul fronte orientale, è stato massimo.

Ancora: c’è l’incontro tra violenza e ideologia politica che si fa devastante e dove, in un clima torbido e inquietante, s’intrecciano il giustizialismo politico e ideologico del movimento partigiano titino, il nazionalismo etnico e, soprattutto in Istria e nelle aree interne, la violenza selvaggia tipica delle rivolte contadine. Ci sono le violenze contro le popolazioni italiane del settembre del 1943 e del maggio-giugno del ’45, di cui le foibe, gli arresti e il clima di terrore che spinge all’esodo forzato migliaia di italiani sono simbolo ed espressione; c’è la volontà di Tito e del comunismo jugoslavo di annettere l’intera Venezia Giulia, con un’epurazione volta a eliminare – senza andare troppo per il sottile – qualsiasi voce di dissenso.

 

Ci sono, infine, le logiche della Guerra fredda e della radicalizzazione dello scontro ideologico nell’immediato Dopoguerra. Il tutto sulla pelle di decine di migliaia di persone. Un vero e proprio tornante di fughe e di espulsioni in tutta Europa, infatti, si accompagna agli esordi della Guerra fredda e a una più generale ridefinizione dei confini europei e dei loro significati.

 

Diventa, quindi, sempre più necessario, nell’affrontare questa pagina di storia, contestualizzarla con grande rigore, respingere tesi negazioniste o riduzioniste, così come le banalizzazioni e le verità di comodo più o meno finalizzate a uno scorretto uso pubblico della storia. Occorre assumere un ruolo attivo nel processo di rivisitazione critica, che sola può portare al superamento delle lacerazioni del passato. Anche perché le vicende dell’area giuliano-dalmata costringono chi le affronta a misurarsi con temi assai più generali e con fenomeni centrali per la comprensione della nostra contemporaneità.

 

*Quello di Pierangelo Lombardi, presidente dell’Istoreco pavese, è il terzo degli interventi sulle date fondanti della Repubblica. Il primo, sul 12 dicembre, strage di piazza Fontana, e il secondo, sul 27 gennaio, Giornata della Memoria, sono pubblicati sul sito de L’Espresso. I prossimi saranno su 8 marzo, 25 aprile, 1° maggio, 2 giugno, 4 novembre.