Mentre nel Paese si è scatenata la “corsa al nero” contro i migranti in transito verso l’Europa, la cittadina costiera resiste come simbolo di coesistenza tra comunità diverse. Anche religiose

È già buio e soffia forte il vento dal mare. Il Madart è un cinema d’essai, come ce n’erano una volta: una sorta di Cinema Paradiso versione tunisina, a Cartagine. In genere poca gente fa la fila per strappare il biglietto, ma stasera c’è il pienone. “Je reviendrai là-bas”, documentario di Yassine Redissi, ha un successo incredibile nella Tunisia di oggi: quella di Kais Saied, presidente dal 2019, all’origine di una stretta autoritaria sul Paese, l’ultima democrazia del mondo arabo. Lui ha appena tuonato contro le «orde di migranti clandestini», i subsahariani che qui vengono per poi scappare in Italia su un barcone. Si è scatenata un’indecente «corsa al nero». Nella Tunisia dall’atavica tolleranza.

 

“Je reviendrai là-bas“ è un road-movie, dove il regista Yassine e un giovane cantante, Slim Ben Ammar, partono sulle tracce della memoria di Henri Tibi. Era un ebreo tunisino: viveva alla Goletta, altro sobborgo di Tunisi, poco lontano dal Madart. Morto dimenticato pochi anni fa in un paesino della Francia profonda, aveva cantato le estati spensierate della sua cittadina multiculturale. Gli spettatori si emozionano, riscoprono quel modello d’integrazione: riempire la sala del cinema stasera è stato un atto di resistenza. La mattina dopo bastano cinque minuti su un trenino scassato e puzzolente, il Tgm, per raggiungere la Goletta. «Sono un ingegnere informatico», racconta Ahmed Meddeb, 32 anni, «dopo la laurea mi avevano dato il visto per Praga: un buon lavoro, uno stipendio alto». Vista la situazione oggi in Tunisia, chi rientra più… Ma lui ritornò appena un anno e mezzo dopo, era il 2019. A casa sua, alla Goletta. «Gli altri arabi e anche i tunisini lì a Praga erano ipnotizzati dalle nuove libertà. Io qui le avevo già, cambiava ben poco». Ha il volto abbronzato in ogni stagione, come tutti i duri e puri della Goletta, 46 mila abitanti. «Sembra un’isola: da una parte c’è il mare, dall’altra la laguna, che la divide dal centro di Tunisi». È un mondo a parte.

 

Il nome ispira subito simpatia in Tunisia. Fa pensare ai ristoranti di pesce a buon mercato, alla possibilità di bersi una birra nei tavolini all’esterno (anche per una ragazza da sola, in pieno giorno: no, non è così scontato in un Paese musulmano e in un quartiere popolare). La Goletta è sinonimo di tolleranza e di coesistenza pacifica tra comunità diverse, pure religiose. Nel Paese nordafricano l’immigrazione italiana s’intensificò dopo il 1868, quando l’Italia e l’allora Reggenza tunisina (il bey, il sovrano, dipendeva dall’Impero ottomano) firmarono il Trattato della Goletta. Arrivarono i pescatori siciliani, in fuga dalla miseria, a bordo di barconi, nella direzione opposta ai migranti di oggi. Gli italiani continuarono a sbarcare in Tunisia anche dopo l’inizio del protettorato francese (1881), fino a essere oltre 100 mila e più numerosi dei colonizzatori. Nelle stradine strette della Goletta vivevano (anzi, convivevano) con altri stranieri, maltesi soprattutto, e una numerosa comunità di ebrei autoctoni. E i tunisini musulmani, ovviamente.

 

Oggi di tutte quelle comunità così diverse restano pochi sopravvissuti. Habib Bourguiba, il padre dell’indipendenza, raggiunta nel 1956, confiscò terre e beni agli stranieri. Gli italiani dovettero partire e più tardi pure gli ebrei, quando, nel 1967, iniziarono le minacce, dopo la guerra dei Sei giorni, come negli altri Paesi arabi. E se ne andò anche Henri Tibi, il cantante del documentario. Il titolo in italiano significa: “Ci ritornerò”. Ma lui alla Goletta non rimetterà più piede. Questa è la parte negativa della storia. Ma secondo Ahmed «lo spirito di tolleranza c’è ancora, come se si fosse sedimentato: i luoghi parlano». Dal punto di vista architettonico la Goletta è un frullatore, a tratti polveroso, di case liberty, art déco (dal sapore razionalista italiano) e vari orrori più recenti sul lungomare: è una cittadina imperfetta, umana. Ahmed si ricorda del vicino, Albert, un ebreo. Ma tutti lo chiamavano Shalom: lui salutava i passanti in quel modo. «Gli volevamo molto bene. Era praticante e doveva sottostare alle regole della sua religione. Il sabato lo aiutavamo a comprare il pane o ad accendere e spegnere le luci». È morto tre anni fa. Ora la casa è vuota.

 

Entrati nel mercato del pesce, si viene avvolti dagli odori e dalle voci. Koum Koum ha le seppie migliori. E parla italiano. «L’ho imparato da piccolo con i miei vicini. Condividevamo tutto con loro». Intorno si contrattano i prezzi e si chiude con un «d’accordo». Koum vive alla Piccola Sicilia, che era il quartiere dei siciliani. Pianti di bimbi e odori di verdure fritte escono da finestre socchiuse. La chiesa di sant’Agostino e san Fidelio fu costruita a partire dal 1848. «Vi è custodita la statua della Madonna di Trapani: è venerata dai cristiani, ma anche da ebrei e musulmani», spiega Abdelmajid Ben Ahmed, presidente dell’Associazione Piccola Sicilia. Oggi vi gravita una comunità di migranti subsahariani cattolici, che non ha nessun problema, malgrado gli anatemi di Saied.

 

Più in là, su avenue Franklin Roosevelt si allineano i ristoranti, il pesce fresco esposto fuori. E oltre il canale, nell’antica casa di famiglia, abita Silvia Finzi. Un suo avo, Giulio Finzi, ebreo livornese e tipografo, che aveva partecipato ai moti carbonari, fuggì dalla sua città alla fine degli anni Venti dell’Ottocento, esule a Tunisi. Sono rimasti sempre qui. Silvia, classe 1954, dirige un giornale in lingua italiana, “Il Corriere di Tunisi”, fondato dal nonno, e insegna Storia dell’emigrazione all’università. Non idealizza troppo il mito della Goletta: «I matrimoni misti erano pochi e venivano vissuti in maniera drammatica dalle famiglie, per le differenze religiose». Ma la convivenza ci fu ed è un esempio ancora oggi: «Se tutta la la Tunisia si “golettizzasse”, sarebbe meraviglioso».

 

Il giorno di Ferragosto è la festa della Madonna di Trapani. Un tempo la statua, protettrice della gente di mare, era portata fino alla spiaggia e immersa nell’acqua. La seguivano tutti: cristiani, ma anche musulmani ed ebrei. Bourguiba, nel 1964, proibì quelle cerimonie all’esterno. Ilario Antoniazzi, arcivescovo di Tunisi, ha ripreso la tradizione nel 2017. Con un certo coraggio, perché la legge lo vieta ancora: «La prima volta la portammo giusto fuori dalla porta della chiesa. Ma ogni anno facciamo qualche metro in più», racconta. Lo scorso Ferragosto ha fatto tutto il piazzale antistante, sfiorando un murale con il volto di Claudia Cardinale, che da giovane è cresciuta alla Goletta. «Ogni volta mi vengono i brividi. Le donne musulmane accolgono la Vergine con gli yuyù, i gridi di gioia. Dalle finestre applaudono. La Goletta è l’unico posto nel mondo arabo dove si possa fare una processione del genere». Alla messa, c’erano soprattutto musulmani. «Voi non siete figli capitati da non so dove – disse l’arcivescovo nell’omelia – siete figli di gente che si amava. Oggi avete una responsabilità». Oggi più che mai.