Il caso

La Cina compra terreni negli Stati Uniti. E scatta l'allarme

di Luciana Grosso   13 settembre 2023

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Si tratta per ora di quantità marginali, ma i rapporti tra le due superpotenze sono sempre più tesi. Il fenomeno preoccupa Washington e il Senato approva un divieto anche per Russia, Iran e Corea del Nord

Quanto costa comprare un terreno negli Stati Uniti? Dipende, ovviamente: da dov’è, da cosa ci si può coltivare sopra, da quali materie prima nasconde sotto, si tratti di petrolio o della ben più preziosa acqua. In linea di massima però i prezzi sono relativamente bassi. Non dimentichiamo che gli Stati Uniti sono una terra enorme e quasi del tutto vuota. In media, un terreno agricolo costa intorno agli 8000 dollari all’ettaro (3500 all’acro, l’unità di misura cara ai nordamericani). Molto meno di quanto non accada per esempio in Italia, dove i prezzi medi vanno dai 40 mila all’ettaro della Pianura Padana ai 15 mila del centro sud.

 

Quando si parla di terreni, e dunque di agricoltura, negli Stati Uniti, i problemi sono molti. In particolare, la bassa quotazione dei terreni, ha fatto sì che aziende molto grandi, per lo più multinazionali, potessero accaparrarsi, in modo non dissimile da quanto avveniva nel tardo impero romano con il latifondo, enormi zone di terreno, togliendole agli agricoltori medi e piccoli. In questo modo, l’agricoltura si è trasformata in un’impresa su enorme scala, cosa che ha drogato sia i prezzi (abbassando la retribuzione dei produttori) sia la produttività, passata all’esasperazione dell’intensivo.

 

Ma nonostante il settore sia in difficoltà (e l’arrivo di inflazione e crisi climatica non hanno aiutato né aiuteranno) a impensierire i legislatori statunitensi, insolitamente concordi, è un aspetto particolare del settore: l’acquisto di terreni da parte di soggetti stranieri, in particolare cinesi. La pratica di comprare terreni agricoli da parte delle multinazionali cresce da tempo. Già nel 2014, uno studio della svedese Lund University contava che almeno 126 Paesi erano coinvolti nella compravendita di terreni. Una compravendita nella quale, com’è facile intuire, Cina, Stati Uniti, Europa e Paesi del Golfo fanno la parte del compratore, e i paesi africani e quelli sud americani quella del venditore.

 

Le ragioni per cui multinazionali occidentali hanno preso a comprare terreni all’estero, specie in Paesi poveri, sono di vario tipo e vanno dalla speculazione, alla necessità di accaparrarsi terreni fertili in vista della crisi alimentare che potrebbe essere innescata da quella del clima, dalla necessità di compensare le emissioni, al comprare terreni utili a produrre energie rinnovabili, con parchi eolici o solari. Uno shopping che non ha risparmiato gli Usa: a oggi si stima che il 3% del totale dei terreni fertili americani sia nelle mani di aziende straniere: 40 milioni di acri su un totale di 1,3 miliardi.

 

A fare da capofila, nel gruppo degli acquirenti, sono le aziende canadesi, che risultano titolari di circa il 30% di quel 3% complessivo. A seguire nella classifica dei compratori di terre statunitensi, ci sono i Paesi Bassi e, al terzo posto, l’Italia (soprattutto per progetti di parchi eolici). Ma se la pratica, pur nel Paese che del possesso della terra ha fatto il suo mito fondativo, non aveva mai suscitato particolare scalpore, da qualche tempo, la possibilità che aziende straniere comprino terreni statunitensi ha iniziato a suscitare più di un malumore. In particolare perché, da alcuni anni, a comprare terreni ci si sono messe le multinazionali cinesi. Si tratta di quantitativi ancora estremamente limitati, tanto che, ad oggi, se il 3% dei terreni americani è di proprietà di aziende straniere, solo l’1% di questo 3% è di proprietà cinese.

 

Ma ci sono due ordini di problemi: il primo è che i rapporti tra Stati Uniti e Cina sono tesi come non lo erano da decenni: alla guerra dei dazi di Trump, si sono sommati i rapporti con la Russia, la questione di Taiwan, i problemi della tecnologia e del mercato dei microchip e da ultimo le ipotesi di spionaggio cinese ai danni degli Usa. Il secondo è che, in tempi di così grande tensione, si teme che la Cina possa usare i suoi terreni su suolo americano per indebolire l’economia e la sicurezza, sia militare che alimentare, del Paese. Questo potrebbe succedere in due modi: o comprando appezzamenti strategici per il sistema alimentare americano, oppure comprando aree nei pressi di basi militari, dalle quali, si teme, possano essere compiute attività di spionaggio. 

 

Per quel che riguarda il primo caso, c’è un esempio che rende chiare le ansie statunitensi: benché i terreni di proprietà cinese siano relativamente pochi, l’80% di questi è di proprietà del gruppo WH di Hong Kong, che nel 2013 ha comprato per 4,7 miliardi, Smithfield Food, ossia il più grande produttore di carne suina degli Stati Uniti, a cui fanno capo circa 18 milioni di capi di bestiame e svariati appezzamenti di terra per coltivare mangime. Per quel che riguarda la sicurezza nazionale, invece anche se ci sono stati di recente casi di terreni comprati a pochi chilometri da basi militari (per esempio in North Dakota), non esiste nessuna prova che si tratti di coperture per attività di intelligence. Il livello di allerta è comunque molto alto, tanto che lo scorso luglio, il Senato ha approvato, con una maggioranza insolitamente ampia e bipartisan, il divieto a Cina, Russia, Corea del Nord e Iran di acquistare terreni agricoli americani, anche se non è chiaro se l’emendamento entrerà nel disegno di legge finale sulla spesa per la difesa che verrà votato al Congresso questo autunno.