Intervista

Stuart Ramsay: «Rischio la vita per raccontare cosa succede nel mondo: il giornalismo fa la differenza»

di Simone Baglivo   6 settembre 2023

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Stuart Ramsay

È il reporter inglese più conosciuto. Ha coperto le guerre. Ed è rimasto ferito più volte. Come alle porte di Kiev

«Sono stato rapito in Cecenia, fatto saltare in aria dall’Isis a Mosul, ferito più volte in sparatorie, colpito, accerchiato, assalito. Non so come ne sia uscito vivo. Ma vale la pena rischiare la vita per raccontare cosa succede nel mondo perché credo che il giornalismo possa fare la differenza».

 

Stuart Ramsay, 59 anni, tre volte premio Emmy, è una star della televisione britannica. Presentatore del celebre programma investigativo Hotspots: On The Frontline e capo corrispondente dall’estero per il network internazionale di Sky, è il giornalista più longevo della rete inglese che ogni giorno si rivolge a 170 milioni di telespettatori su tutte le piattaforme.

 

Questa sua prima intervista italiana si svolge durante il suo soggiorno in Salento. Sorseggia un bicchiere di Vermentino mentre suonano le note di “Ma il cielo è sempre più blu” di Rino Gaetano, un artista che ha scoperto ascoltando i balconi italiani durante il lockdown.

 

«Sono innamorato dell’Italia, i paesaggi sono incantevoli, le persone stupende, il cibo è il migliore al mondo», racconta, sgranando gli occhi azzurri intorno ai quali restano i segni delle ferite. Si sta riprendendo da un grave incidente d’auto («la prima causa di morte per gli inviati all’estero»).

 

È appena rientrato dall’Asia: «Abbiamo vissuto 30 giorni sotto copertura nella giungla del Myanmar per documentare come la dittatura militare stia uccidendo i propri cittadini».

 

Il suo ultimo reportage è stato apprezzato anche dall’Inviato speciale dell’Onu per i diritti umani nel Paese. Non a caso, la specializzazione di Ramsay sono gli «ambienti ostili», si è occupato di 18 guerre e di ogni notizia riguardante l’Africa o il Sud America, la Russia o la Siria, l’Afghanistan o l’India. Ricorda che in molte occasioni ha contribuito a cambiare la visione del mondo su quei Paesi.

 

Come quando svelò il genocidio del Darfur, in Sudan. «Andare sul campo e vedere con i propri occhi è il modo migliore per investigare una storia. Se non lo facessimo, allora chi ha potere potrebbe sempre farla franca all’oscuro della comunità internazionale». Per questo apprezza l’impegno della sua azienda che gli consente di documentare dal vivo pur mitigando i pericoli del suo lavoro.

 

Da trent’anni sempre in prima linea. Era in Ucraina a raccontare la guerra quando a febbraio del 2022 l’auto su cui viaggiava la troupe è stata crivellata da decine di colpi sparati da cecchini russi alle porte di Kiev. Un agguato alla libertà d’informazione ripreso in diretta che ha fatto il giro del mondo. Mostra la cicatrice dei proiettili che gli hanno attraversato la schiena, ma poi racconta che, uscito dall’ospedale, è tornato subito in Ucraina. E al polso indossa un bracciale con una delle pallottole. Si commuove solo quando parla del custode ucraino che gli ha salvato la vita. «Ho naturalmente paura di morire, ho visto colleghi devastati per sempre, ma qualcuno deve pur fare questo lavoro. Io credo nel suo valore e potenza, ne sento la responsabilità. Accetto i rischi, non posso e non voglio fermarmi. Siamo in pochi a farlo e tra questi molti sono italiani», spiega.

 

All’inizio della pandemia da coronavirus è entrato per primo nella zona rossa italiana, dentro la terapia intensiva dell’ospedale di Bergamo, realizzando un documentario esclusivo che ha mostrato per la prima volta le conseguenze di un virus sconosciuto. Immagini che hanno sensibilizzato governanti e governati in tutto il mondo, cambiandone la mentalità. «È la storia più importante della mia vita, non dimenticherò mai quei medici italiani. Sono davvero orgoglioso di aver aumentato la consapevolezza del pubblico», dice. La sua famiglia - la moglie Toni e i figli Kit, Lex e Tavi - lo ammira, anche se è spesso difficile convivere con il suo lavoro. «Ricordo con dispiacere che una volta mio figlio Lex, giornalista come me, fu gravemente malato e io sono stato assente a causa del lavoro. Oggi invece mia figlia Tavi è forse quella che soffre di più», confida.

 

I giudici della prestigiosa Royal television society lo hanno premiato anche nel 2023 come “Giornalista dell’anno”, descrivendolo come «un incredibile narratore visivo la cui impressionante professionalità traspare in tutto il suo operato». Un consiglio per aspiranti storytellers? «Quando un reporter racconta una storia deve farlo in modo interessante, informativo, corretto e comprensibile: anche sua nonna deve capirlo. Entriamo nelle case dei telespettatori e dobbiamo spiegare perché è importante fermarsi qualche minuto a riflettere su un tema». Per Ramsay, che ha documentato recentemente anche la crisi dell’Amazzonia, il cambiamento climatico è «senza ombra di dubbio la più grande sfida per l’umanità, a meno che non scoppi una guerra nucleare. L’ambiente rimarrà un’indiscussa priorità, il Pianeta soffre, lo vediamo anche con gli incendi e le alluvioni di questa estate».

 

Da giovane faceva il batterista, suonava in una band e sognava di diventare una rock star. «Poi, a causa di differenze musicali mi hanno buttato fuori e penso sia la cosa migliore che mi sia capitata». Il giornalismo lo ha iniziato su un quotidiano locale. «In fondo la musica e l’informazione sono entrambe due forme di intrattenimento, l’obiettivo è sempre catturare l’interesse del pubblico. Mi piace pensarmi ancora rock and roll».