Pena di morte
Joe dimentica il miglio verde
Nei pochi giorni che restano gli attivisti si mobilitano per rimproverare a Biden la promessa tradita sull’abolizione delle esecuzioni. Con loro anche molti parenti di vittime
Quando Lisa Montgomery spirò – stroncata in tredici minuti, da un’overdose di pentobarbital iniettato in entrambe le braccia – nella sua cella trovarono il calendario su cui stava segnando i giorni che mancavano al 20 gennaio 2021, data in cui Joe Biden si sarebbe insediato alla Casa Bianca e avrebbe, come promesso, fermato gli omicidi di Stato. Il conto alla rovescia, invece, si interruppe esattamente una settimana prima. A nulla valsero gli appelli di avvocati e attivisti che raccontarono una vita sbandata, ferita da abusi sessuali, violenze e umiliazioni indicibili subiti sin da bambina, risultati in una forte instabilità mentale. Quella della cinquantaduenne, condannata a morte per avere sventrato una giovane incinta nel 2004 e per averne rapito la creatura, fu una delle tredici esecuzioni federali attuate negli ultimi sei mesi dell’amministrazione Trump. Unica donna in quasi settant’anni. Lei e tutti gli altri, erano affetti da una qualche forma di disabilità intellettiva o presentavano gravi traumi. La batteria di iniezioni letali voluta dal repubblicano è stata la più vigorosa degli ultimi 120 anni. Mentre comincia un altro countdown, sono decine le organizzazioni, ma anche gli stessi familiari delle vittime di reati, che pressano affinché Biden mantenga la promessa che non è ancora riuscito a realizzare. Gli chiedono di essere coerente e utilizzare almeno le ultime settimane al Resolute desk per commutare in ergastolo le sentenze dei 40 detenuti federali in attesa di percorrere il “miglio verde” nel penitenziario di Terre Haute, in Indiana, prima che Donald Trump entri nello Studio Ovale. Il pressing (che include l’appello di Papa Francesco) si innesta in un più ampio movimento di progressisti coalizzati per convincere il democratico anche a graziare le persone dietro le sbarre per reati di droga con condanne ingiustificatamente lunghe. La conta include un numero oltremodo alto di persone di colore. La portavoce della Casa Bianca, Karine Jean-Pierre, ha assicurato che è in corso un’attenta riflessione; ma di certo sgomenta il tentennamento di un presidente che ha appena concesso una grazia incondizionata al figlio Hunter, nonostante avesse ripetutamente negato l’eventualità di farlo.
Non aiuta, però, la battaglia mediatica degli abolizionisti il fatto che tra i condannati eleggibili ci siano anche i killer delle stragi della maratona di Boston del 2013, della chiesa di Charleston del 2015 e della sinagoga di Pittsburgh del 2018. «Ma la pena di morte è disumana sia quando il condannato è innocente, sia quando è colpevole», dice a L’Espresso Wanda Bertram, stratga della Prison policy initiative. Il suo è uno dei gruppi più attivi in questa operazione dell’ultima ora. «Biden ha sempre detto di volersi impegnare a risolvere le ingiustizie razziali. È tempo di dimostrarlo: le esecuzioni puniscono in modo sproporzionato le minoranze, in linea con quello che accade in tutti i rami del sistema giudiziario americano». E, infatti, nonostante neri e ispanici costituiscano solo il 31 per cento della popolazione, rappresentano il 53 per cento dei condannati a morte. Nonostante la promessa di abolizione, nel corso del mandato Biden ha preferito non spingere per una legge federale in Congresso che avrebbe salvato anche i 2.180 prigionieri che aspettano di essere uccisi nelle carceri statali, su cui il governo centrale da solo non può decidere. Ha prevalso la cautela, sintetizzata in una moratoria imposta dal suo ministro della giustizia, Merrick Garland, valida solo per i condannati federali. Un primo passo lo definisce Robin Maher, direttrice del Death penalty information center. Secondo lei anche ora che si spinge con più forza per un’azione definitiva, «non bisogna dimenticare che questa amministrazione ha fatto delle cose buone. Ha bloccato le condanne federali e ha avviato una revisione interna delle procedure che riguardano le esecuzioni». Biden deve sigillare queste conquiste.
Il secondo tempo nella West Wing del leader Maga si preannuncia, infatti, ancora più funereo: in campagna elettorale, in piena esibizione muscolare, ha ipotizzato l’estensione della massima punizione agli spacciatori e ai trafficanti di esseri umani. Un modo per promuovere la sua immagine di poliziotto “law and order” e placare i timori della base, angosciata da un percepito aumento del crimine. Sebbene l’inefficacia come deterrente sia un dato ormai documentato. «Donald Trump salirà al potere in un’epoca in cui il partito repubblicano si è mosso in una direzione punitiva, nella retorica come nella pratica della giustizia penale. Ci sono diversi Stati che hanno limitato le opportunità di libertà vigilata, aumentando di fatto il numero delle persone, nonché la durata delle condanne in carcere», aggiunge Wanda Bertram. «Storicamente i politici hanno adoperato la pena di morte come una facile risposta a preoccupazioni reali relative alla sicurezza nelle nostre comunità. Trump, però, non avrà il tipo di sostegno che immagina», concorda Maher. Infatti, pur persistendo uno zoccolo duro favorevole del 53 per cento, l’opinione pubblica sta cambiando e le esecuzioni sono in declino a livello statale. «Oggi non è più una storia americana, è una storia locale relativa solo a una manciata di Stati. E i numeri sono comunque inferiori rispetto a 10 e 20 anni fa», nota l’esperta. La geografia della punizione capitale adesso si concentra in Texas, Oklahoma, Virginia, Florida e Missouri. Il 50 per cento degli statunitensi, inoltre, ritiene che il governo non la applichi in modo equo. Ecco perché tanti attivisti non comprendono i piedi di piombo di Biden e non gli perdonano l’assenza di un approccio più aggressivo in questi anni in carica. «Avrebbe potuto osare di più. Ma non è ancora troppo tardi per fare la cosa giusta».