Il fronte dei miliziani figli della protesta spenta nel sangue e gli ex dell’esercito qaedista. Le anime dei ribelli che si sono liberate del regime in un Paese stremato

Fuori dal campo profughi palestinese di Jaramana nella poverissima periferia a Sud-est di Damasco, due ragazzine appena tredicenni trascinano un carico dieci volte superiore al loro peso. Il viso scarno, consumato dalla fame e dalla polvere. Una giovane madre dell’alta borghesia aleppina stringe a sé la figlia gravemente disabile in sedia a rotelle, mentre racconta di aver trovato riparo nella discarica cittadina, dopo essere scampata con la famiglia al terremoto del febbraio 2023. Su quei volti si legge il dramma dimenticato dei siriani. Costretti, dopo 13 anni di guerra, a vivere ancora nelle tende o dentro le rovine dei loro palazzi con una sola ora di elettricità al giorno e stipendi che non superano i 25 dollari al mese.

 

A ridestare dal torpore la comunità internazionale e le cancellerie occidentali, allarmate dal ritorno del terrorismo, una coalizione di gruppi di opposizione al regime di Bashar al Assad. Fra loro, anche Hayat Tahrir al-Sham (Hts), ex cellula qaedista di peso, guidata da Abu Mohammad al-Julani, già capo del Fronte al Nusra, che nel corso degli ultimi anni ha eliminato un buon numero di leader dei gruppi più estremisti, Hurras al Din fra tutti. Di qui, l’etichetta di milizie jihadiste attribuita alla neonata coalizione che ha preso il controllo del Paese. Con un Medio Oriente in fiamme, il fronte aperto della guerra di Israele contro Hezbollah libanese, iracheno e Teheran, stampelle del presedente siriano, ha spianato la strada alla nuova ribellione contro il regime. Le forze ribelli annunciano i loro intenti: «Restituire il diritto al popolo di ritornare in sicurezza nelle proprie città, proteggere le minoranze e le diverse confessioni, non permettere a quel che resta del regime siriano di sfruttare la propaganda della lotta al terrorismo, consentire l’accesso ai media internazionali». Qualunque siano le loro intenzioni, anche i più scettici come Najib, cristiano di Aleppo, riferisce che le milizie «hanno cominciato a distribuire il pane e a breve anche tutti gli altri beni alimentari».

 

La presenza ingombrante di al Julani non suscita imbarazzo fra gli oppositori del governo damasceno. «È accaduto un evento eccezionale, che sta rimuovendo la stagnazione che regnava da almeno otto anni in Siria – spiega Hassan, membro del Partito democratico popolare siriano, uno dei maggiori movimenti dell’opposizione – Bisogna capire le dinamiche interne e non tralasciare tutti i cambiamenti avvenuti in questo lungo periodo. Senza difendere al Julani, perché se fosse stato ancora legato ad al Qaeda gli americani l’avrebbero ucciso, così come hanno fatto con al Baghdadi. Le sorti della Siria non sono legate alla volontà del suo popolo, perché in tutti questi anni il nostro Paese è stato il crocevia degli interessi di americani, russi, iraniani, turchi, inglesi, francesi, sauditi, Emirati arabi, tutti stanno in Siria. Ora ci aspettiamo che le risoluzioni Onu 2254 e 2118, quest’ulti- ma decisa dopo i massacri con le armi chimiche, vengano applicate e rispettate». Sembra passata un’eternità da quando nel 2011 Robert Ford, ambasciatore Usa in Siria, relazionava sui primi manifestanti di Hama e Aleppo, che scendevano in piazza «liberando colombe e vendendo fiori». Proteste rivolte non tanto contro il presidente Assad, dal quale i siriani si aspettavano riforme, quanto contro la corruzione senza freni dei suoi collaboratori più stretti. Ciò che ottennero da Damasco fu una feroce repressione a colpi di pogrom, bombe, gas e sparizioni forzate all’interno dei 27 centri di detenzione gestiti dai Mukhabarat, i servizi segreti siriani e censiti dall’Ong Human Rights Watch. L’insurrezione pacifica diede il liberi tutti alla fiumara di attori stranieri e all’Isis di piantare le querce delle loro pretese territoriali, dei loro interessi strategici ed economici in un Paese sprofondato nel caos, molto simile al vicino Iraq di otto anni prima: un posto violento, una giungla senza regole, dove uomini armati giravano liberamente imponendo alla popolazione la loro legge.

 

«La Siria non sarebbe stata pronta per noi se non ci fosse stata la rivoluzione, che rimosse molti ostacoli e ci aprì la strada per entrare in questo luogo benedetto», saranno molto tempo dopo le parole di al-Julani e riprese dal premio Pulitzer Joby Warrick nel libro “Bandiere nere. La nascita dell’Isis”. Julani era «il capo della missione inviata da Abu Bakr al-Baghdadi a sei mesi dalle rivolte – si legge – per sondare il terreno dove poter restaurare il Califfato». Un’impresa fallita a Baghdad, a causa degli “invasori” americani. Il fronte democratico dell’opposizione era spacciato, stretto da una parte dalla morsa della reazione del governo centrale, sostenuto militarmente da Russia, Iran e Hezbollah e dall’altra dal- le sanguinarie milizie del Daesh. Mosca ha sempre avuto tutto l’interesse a mantenere una posizione di primo piano nello scacchiere mediorientale, anche per limitare la presenza Usa con le sue basi dislocate soprattutto nei territori a Nord della Siria. Teheran, decisa a utilizzare Damasco come ponte per trasferire armi alla milizia sciita in Libano, baluardo contro il «regime sionista» al confine Sud del Paese dei cedri; e infine lo stesso Partito di Dio, che con l’alawita Assad ha un’alleanza storica. Sull’altro fronte, i jihadisti del Daesh che, nel gennaio 2014, hanno attaccato nelle aree settentrionali del Paese l’opposizione moderata, unita nell'odio per i tagliagole e alla quale aderì anche al-Nusra di al-Julani, malgrado il giuramento di fedeltà ad al-Qaeda.

 

«Dopo l’avanzata nel Paese dell’opposizione con l’Esercito libero siriano si scatena nel 2015 l’intervento di Mosca, delle milizie iraniane e di Hezbollah a fianco di Damasco – riprende Hassan – Alle distruzioni delle città, seguirono sfollamenti forzati di combattenti e civili nelle aree di Idlib. Con gli accordi di Astana di Russia, Iran e Turchia è stata ridisegnata la mappa del territorio, con una zona di deescalation, che includeva Aleppo e i tre quarti di territorio riconquistati dal governo. Che ha mantenuto inalterato lo stato ante rivoluzione, con l’aggravante che la corruzione è aumentata, insieme alla povertà e al malcontento dei siriani». Ancora oggi la Siria detiene il triste primato per numero di persone costrette a fuggire: 13 milioni hanno abbandonato il Paese o sono sfollate all’interno dei suoi confini. D’altronde percorrendo la M5, la principale arteria che collega Damasco ad Aleppo fino alla periferia orientale di Idlib a Nord, non è difficile intuire che non può esistere un’alternativa alla fuga. Una sequela quasi ininterrotta di macerie e villaggi fantasma, dove per chilometri non si vede anima viva. Municipalità come Kaboun, un sobborgo poco fuori la capitale, Maarat al-Numan a 57 chilometri da Hama, Sarakeb a Est di Idlib e Aleppo mostrano tutti gli orrori della guerra.