Alle radici dell’odio che ha armato Luigi Mangione contro il ceo della società assicurativa che gli negava assistenza: negli Usa un quarto dei cittadini rinuncia o posticipa farmaci e terapie

Accade quando i «cattivi» diventano eroi. Luigi Mangione, l’ultimo Robin Hood d’America, ha già un emulatore. In Florida, una quarantaduenne è stata arrestata dopo aver minacciato al telefono l’impiegato di una compagnia di assicurazioni che le stava negando un rimborso: «Sarete voi i prossimi!». I prossimi dopo Brian Thompson, ceo di United Healthcare, ucciso il 4 dicembre a New York dai colpi esplosi dalla pistola del giovane italoamericano arrestato in Pennsylvania, dopo giorni di caccia all’uomo. Il cavaliere nero che grida vendetta contro gli abusi di un sistema sanitario che predilige il profitto selvaggio a discapito della salute delle persone. L’hashtag #FreeLuigi invade da giorni i social. Il volto incappucciato è tatuato su decine di corpi, come pure il disegno dei tre bossoli trovati sulla scena del delitto con incise le parole «deny, defend, depose» (negare, difendere, deporre) che sbeffeggiano le arcinote tecniche delle compagnie assicurative per evitare di rimborsare i clienti. Il motto è impresso su poster, adesivi, t-shirt, sportine, tazze, merchandising di ogni tipo. Ci sono anche le finte copertine “persona dell’anno” di Time. Luigi è un sex symbol. Un profilo anomalo. È il rampollo di una famiglia benestante, ingegnere informatico laureato in una delle università più prestigiose del Paese. Viene dall’élite, si è nutrito di un’ideologia liquida, post- moderna. I suoi social ospitano personalità diversissime tra loro. Dalla parlamentare progressista Alexandria Ocasio-Cortez, al complottista e possibile ministro della salute trumpiano Robert F. Kennedy. Un problema alla schiena, forse, potrebbe avergli fatto sperimentare le tenebre asfittiche della sanità privata. Quella che ha condannato negli scritti che gli inquirenti hanno trovato nel suo zaino, in cui alimenta la narrazione del martire che si sacrifica per la causa comune.

 

Oggi è il «folk hero» a cui – ricorda il New York Times - viene assegnato il ruolo che Eric Hobsbawm definiva di «bandito sociale». C’è chi rispolvera il mito di Ted Kaczynski, l’Unabomber ammirato da Mangione che negli anni Novanta con i suoi mini-attacchi dinamitardi antisiste- ma fece tremare l’America. Una deriva pericolosa. A Manhattan sono stati affissi poster “wanted” con i volti di amministratori delegati di grandi corporation. Online, una serie di post virali mette alla gogna i dirigenti delle principali assicurazioni sanitarie, pubblicandone volti e compensi milionari. Dopo l’allerta della polizia di New York, le grandi compagnie hanno incrementato la protezione dei vertici. «Il sostegno all’assassino non è un enigma. C’è frustrazione verso il sistema sanitario, ingiusto e diverso rispetto a quello dei Paesi europei, dove puoi andare dal medico senza fare bancarotta», riflette con L’Espresso Carol Graham economista della Brookings Institution. Nel marasma emotivo, i social traboccano di storie dell’orrore, indegne di un Paese civile: cure rifiutate, conti esorbitanti, morti evitabili. La studentessa Arete Tsoukalas, racconta Cnn, scopre di avere la leucemia, ma anziché curarsi, inizia un’estenuante lotta per convincere la compagnia a coprire le terapie che altrimenti sarebbero costate tredicimila dollari al mese. Nell’attesa, sospende i farmaci. E difatti secondo la Kaiser Family Foundation un quarto degli americani saltano o posticipano le cure per lo stesso motivo (nella conta non sono inclusi i 26 milioni non coperti). Jessica Alfano su TikTok dà conto dei duelli telefonici per superare i cavilli burocratici e garantire le cure alla sua bimba con un tumore al cervello, mentre lei stessa è incinta di nove mesi. C’è poi la storia di Allie, un’altra tiktoker, operata di appendicite mentre è in attesa; non solo il piccolo muore dopo il parto, ma lei ha un embolia. Al termine della tragedia, scopre che l’ospedale in cui l’hanno ricoverata d’urgenza non fa parte della rete coperta dalla sua assicurazione. È costretta a dichiarare bancarotta. E non è la sola. I debiti accumulati a causa di problemi di salute sono la causa principale di fallimento in Usa. «Per molto tempo siamo stati percepiti come la terra delle opportunità, del sogno americano. Il mito andava ben oltre la realtà», spiega Graham, che all’American Dream ed alle sue declinazioni ha dedicato parte delle sue ricerche. «La disuguaglianza è aumentata negli ultimi decenni. C’è la sensazione di esser lasciati indietro.

 

Viviamo in una società privata, dalla sanità all’istruzione. Per capire la parabola del malcontento, un punto importante di svolta è stato il 2008. Con la crisi, molte persone hanno perso la casa, il lavoro e non si sono mai del tutto riprese. Una volta si dava per scontato che i figli avrebbero vissuto meglio dei genitori; per molte famiglie non è più vero». La rabbia distillata dall’omicidio Thompson ha scoperchiato un rancore reale, che si estende ben oltre la spinosa questione sanitaria. Racconta il disprezzo per quell’1 per cento che si ingozza di profitti a discapito del rimanente, ma anche la profonda disillusione nei confronti della politica e delle istituzioni. Secondo un sondaggio del Pew research center, solo il 22 per cento degli americani si fida del governo. Questa erosione di fiducia mette in pericolo la democrazia perché una nazione disillusa tende a votare di meno, indebolendo la rappresentanza. Al contrario, gemmano estremismi, teorie cospirazioniste. «La polarizzazione politica di questo momento storico è corrosiva ed è alimentata dalla disinformazione – ragiona la professoressa – La frustrazione generale ha a che fare anche con i giganteschi cambiamenti strutturali nelle economie moderne, a partire dalla diminuzione del lavoro per i colletti blu, quelli poco qualificati. E poi lo strapotere delle tecnologie. Se l’assassino avesse ucciso un miliardario dell'high tech invece che un miliardario delle assicurazioni, il supporto non sarebbe cambiato perché la gente lo avrebbe visto come il piccolo che sfida il sistema». È in questo humus che prolifera la crescente tolleranza degli americani per la violenza politica: secondo un sondaggio PBS NewsHour/NPR/Marist, uno su cinque ritiene che si potrebbe dover ricorrere alla violenza per rimettere in carreggiata il Paese. Robert Pape, professore all'Università di Chicago, ne ha anatomizzato la normalizzazione: dall’assalto al Campidoglio, all’aggressione del marito dell’ex speaker della Camera Nancy Pelosi, fino ai due recenti tentativi di assassinio contro il presidente eletto, passando per le minacce subite da innumerevoli leader politici. Di certo, fa notare Carol Graham, la violenza politica non è una novità in questa nazione, basti pensare a ferite storiche come gli assassini di JFK e Martin Luther King. Il dato sorprendente è piuttosto il coinvolgimento di persone comuni. «E questo è in parte dovuto alla retorica violenta della politica odierna. Ad esempio quella sostenuta dallo stesso Trump per cui i manifestanti del 6 gennaio sono eroi». Ma non solo. «Siamo ancora il Paese industrializzato con il più alto numero di armi da fuoco pro capite. Si tratta, purtroppo, di condizioni strutturali».