Intervista

Sharon Brous, la rabbina "scomoda": «Netanyahu è una minaccia per la democrazia, un anatema per i valori ebraici»

di Manuela Cavalieri e Donatella Mulvoni da Washington   22 febbraio 2024

  • linkedintwitterfacebook
Sharon Brous

La religiosa critica duramente le scelte del leader israeliano su Gaza. «Bisogna tornare al progetto del ’48. La convivenza tra i due popoli è l’unica soluzione possibile»

Nel mezzo di una guerra, in una terra martoriata dalla spietatezza della morte e delle bombe, c’è un gruppo di famiglie israeliane e palestinesi che esercita il dono caparbio della «pietà che non cede al rancore». Madri, padri, sorelle, fratelli piangono insieme, spalla a spalla, i familiari persi nel conflitto. È raccontando l’esperimento dell’organizzazione Parents Circle-Families Forum in Medio Oriente che la rabbina Sharon Brous racchiude il senso della sua lotta politica, civile e spirituale. «Se queste persone riescono a capire come rivolgersi l’una all’altra, perché non possiamo farlo noi?», chiede quando la raggiungiamo via Zoom a Los Angeles.

 

«Troppe persone hanno permesso al nostro trauma e alla nostra paura di giustificare la negazione dei diritti, della dignità e dei sogni di milioni di palestinesi – ha detto in un sermone di fuoco – per anni, molti di noi hanno cercato di non guardare (...) perché accettare la realtà della sofferenza palestinese sotto il dominio israeliano significa accettare che il popolo ebraico possa essere non solo vittima, ma anche oppressore».

 

Quella di Brous è una delle voci più scomode e influenti d’America. Dal pulpito della congregazione Ikar, che ha fondato, condanna ovviamente Hamas, ma non ha paura di contestare le politiche del governo di estrema destra di Benjamin Netanyahu, anima di un movimento ultranazionalista, «una minaccia per la democrazia, un anatema per i valori ebraici». La rabbina non nasconde neppure le incongruenze della comunità ebraica americana, la più numerosa della diaspora. «Democratica al 75%, profondamente impegnata per la giustizia razziale, climatica, economica», ma che negli anni ha preferito limitare le critiche alle politiche israeliane, soprattutto per non alimentare l’antisemitismo, già alle stelle.

 

Per Brous il silenzio non è un’opzione: i 1.200 israeliani e i 27 mila palestinesi ammazzati nel conflitto sono per lei prima di tutto esseri umani. Morti che pesano anche per il presidente Joe Biden. Il sostegno a Tel Aviv, dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, rischia di trasformarsi in un boomerang elettorale, il prossimo novembre. E non solo tra la comunità arabo-americana. Protestano tanti giovani nei campus, nelle strade, ma anche nei circoli progressisti. A poco sono servite le prese di posizione contro il pugno troppo duro di Netanyahu.

 

Lei ha denunciato come le crescenti tendenze illiberali e antidemocratiche in Israele stiano minando il sogno alla base della sua creazione come Stato. Che cosa vuol dire?
«L’aspirazione era quella di essere un rifugio, un porto sicuro per gli esuli, che avrebbe onorato la dignità di tutti i suoi abitanti, ebrei e no. Ebbene, oggi noi che teniamo profondamente a questi valori diciamo che è nostro compito aiutare lo Stato a vivere all’altezza delle sue aspirazioni, a realizzare la visione del ’48. C’è molto lavoro da fare, ma credo che sia possibile e che la società civile stia davvero facendo da apripista. Ci sono persone coraggiose che dicono: “Israeliani e palestinesi sono partner”, scegliendo la pace invece della guerra eterna».

 

Oggi però la maggioranza degli israeliani e dei palestinesi non crede nella soluzione dei due Stati.
«Non mi fido dei sondaggi in tempo di guerra, la gente è traumatizzata. Credo che una versione della soluzione dei due Stati sia l’unico futuro possibile. Ogni singola trasformazione a un certo punto è sembrata impossibile. Il fatto che lo sembri non deve dissuaderci dal perseguirla».

 

Quello che accade nelle piazze americane – come ha spiegato Ezra Klein in un podcast del New York Times a cui lei ha partecipato – riflette una nuova generazione.
«La generazione dei miei nonni e dei miei genitori vedeva Israele come Davide contro Golia. Era un piccolo Paese di rifugiati sopravvissuti all’Olocausto o costretti a fuggire dal mondo arabo e dal Medio Oriente. La generazione successiva, la mia, ha conosciuto una nazione forte, che poteva difendersi ma lottava per un futuro giusto. Rabin è morto per la pace. La generazione dei miei figli, invece, vede uno Stato potente, con un esercito sofisticato e una società ad alta tecnologia, che non si sforza per la pace, con un governo che anzi lavora attivamente per ostacolarla. I giovani si chiedono: come posso schierarmi con voi? Io rispondo che ci sono molte persone sul campo che combattono per un futuro diverso. Se non siete soddisfatti del governo, sostenete gli operatori di pace».

 

manifestanti pro Palestina a Washington contestano le scelte di Joe Biden

 

Come giudica la posizione estrema di una parte del mondo radicale?
«La critica nei confronti di una svolta ultranazionalista è legittima, ma non si può avanzare come soluzione quella di spazzare via Israele. Non si può dire che l’intero progetto non meriti di esistere; ciò scatena un trauma multigenerazionale. Quando si tratta di Israele succede qualcosa che non avviene con gli altri Paesi. Anche l’America è una società profondamente disastrata, una democrazia imperfetta, piena di razzismo, con una storia di schiavitù e con un sistema di giustizia penale devastante. Ma non si sentono gli stessi attivisti dire che l’America non meriti di esistere. Urge una terza via, per ri-umanizzare noi stessi e gli altri».

 

Eppure sembra che avere compassione per i palestinesi significhi tradire la causa di Israele. E viceversa. Un’impasse insuperabile?
«Sono entrambi modelli fallimentari. Nessun essere umano dovrebbe sopportare ciò che i residenti del kibbutz Be’eri hanno subito. Nessun movimento per la liberazione può iniziare con il massacro, lo stupro, il rapimento di civili. Nessun bambino dovrebbe morire in un bombardamento del suo appartamento a Gaza. Quando cerchiamo di giustificare l’uno o l’altro, dimostriamo i limiti della nostra immaginazione, non riusciamo a vedere l’umanità delle vittime di questo conflitto. Partendo dal dolore e dall’angoscia, dovremmo pensare a un futuro diverso».

 

Superando quello che ha definito il «falso binarismo» di questo tempo?
«Le piazze sono affollate da idee radicate in visioni dicotomiche. Nessuno degli estremi serve. In fin dei conti stiamo parlando di una piccola porzione di terra in cui vivono milioni di persone, ebrei e palestinesi, come vicini; devono imparare a farlo in un modo che onori sia i loro diritti individuali sia quelli collettivi. L’unico possibile è un futuro giusto».

 

 

Il suo ultimo libro, “The Amen Effect”, è una sorta di manuale per ricostruire relazioni e comunità. Lo ha dato alle stampe prima del conflitto, ma quanto è attuale oggi?
«Molto, pur non essendo un testo su Israele e Palestina. Ma credo che l’antica saggezza a cui attingo, scritta duemila anni fa, si applichi assolutamente a questo momento storico. L’unico modo per iniziare a riparare la nostra società è quello di vedere, riconoscere e onorare l’umanità degli altri».