Il ritratto
Aleksei Navalny era il più temuto da Vladmir Putin. Perché "troppo simile" a lui
Carismatico e capace di attrarre le masse, l'uomo morto nel carcere in Siberia è stato il dissidente più preoccupante per lo zar. Perché l’ha additato come ladro e perché era l’unico a poterne davvero insidiare il potere
C’era una luce negli occhi di Aleksei Navalny che Vladimir Putin avrebbe voluto spegnere già quindici anni fa. Un che di magnetico, un carisma naturale che al Cremlino aveva subito fatto paura. Bastava vederlo arrivare, in scenografico ritardo, alle prime ingenue manifestazioni di protesta degli anni Dieci per capire perché il regime ne avesse fatto sin dall’inizio l’obiettivo numero uno. Cappottino azzurro e sciarpetta in mezzo a una folla variopinta e rumorosa, tono di voce mai concitato, linguaggio semplice di uno che ha studiato ma che non fa il “palloso” intellettuale, finiva per guidare la piazza con l’aria di chi non lo fa apposta. «Non so perché avvenga – mi disse una volta, dissimulando un comprensibile compiacimento – ma se serve a cambiare le cose, va benissimo così».
Eppure è stata proprio questa sua dote a segnarne la fine. Colpito, delegittimato, isolato e alla fine ucciso Navalny, il dissenso in Russia è praticamente scomparso e l’ondata di rabbia che sta scuotendo milioni di persone rischia di rimanere senza seguito fino all’avvento di un nuovo leader. Proviamo, ad esempio, a sfogliare l’agendina degli «anni della speranza», come li chiamavano i primi contestatori. La grande scrittrice? In Israele. La pasionaria ecologista? In Lituania. Il campione mondiale di scacchi? In Svizzera. Il romanziere senza paura? In Germania. L’esperto politico? Ucciso da tempo. L’ex oligarca pentito? In giro tra Europa e Stati Uniti. I fedeli scudieri? In chissà quale galera tra gli Urali e la Siberia.
Tutti personaggi di buonafede cristallina e di un coraggio invidiabile, ma mai visti come un reale pericolo negli anni della «democratura» in cui Vladimir Putin tendeva ancora a mostrare una falsa immagine di tolleranza. I giovani che in quei tempi urlavano il loro malessere e la loro insofferenza erano i nuovi russi, figli della piccola borghesia nascente dalle ceneri del comunismo. Poliglotti, discretamente agiati rispetto alle generazioni precedenti, padroni delle nuove tecnologie. Lottavano per cause nobili, ma lontane dalla consapevolezza delle masse: difesa della natura, diritti dei carcerati, salvaguardia dei monumenti. Acqua fresca. Putin poteva permettersi di trattarli con condiscendenza da padre bonario, chiamarli «criceti del computer» o «ragazzi del Jean Jacques», alludendo alla catena moscovita di bistrot alla francese che molti di loro frequentavano. Lasciava capire di avere cose più serie di cui occuparsi che delle marachelle di qualche scapestrato. Perfino gli Omon, i famigerati picchiatori della polizia avevano l’ordine di sorridere e lasciar fare.
Ma con Navalny le cose cambiarono. E la chiave, come spesso accade, fu il denaro. Nessuno, nemmeno Navalny stesso avrebbe mai immaginato il successo clamoroso di “Rospil”, il blog con cui con un gruppetto di colleghi avvocati ricostruiva tutte le truffe e gli episodi di corruzione compiuti da politici, funzionari statali e locali. Facile elencarli in uno dei Paesi più corrotti al mondo. Più complicato e incredibilmente efficace entrare nei dettagli, raccontare storie, protagonisti e, soprattutto, cifre. Nel suo ufficio di via Letnikovskaja, zona residenziale nel centro di Mosca, mi mostrava un gigantesco contatore che indicava i milioni di rubli rubati al Paese e spiegava: «I soldi sono la cosa che fa più presa sulla gente. Questi ladri rubano risorse incredibili a tutti noi. Ed è per questo che si scende in piazza». Vero. Alle manifestazioni di quegli anni l’unico grande slogan era «Putin vor», «ladro».
Ma attaccare Putin sui soldi non è stata l’unica “colpa” di Navalny. L’altra, forse ancora più grande, era somigliare a Putin più di quanto si potesse immaginare. E dunque essere l’unico a poter vincere in una ipotetica gara elettorale per la presidenza. Lo dimostrò alle elezioni per il sindaco di Mosca. Una valanga di voti, prontamente “aggiustati” alla russa, ma che preoccuparono non poco il Cremlino.
Nato nell’Unione Sovietica di Leonid Brežnev, figlio di un ufficiale dell’Armata Rossa, Navalny incarnava tutte le contraddizioni del russo medio, diviso tra i dogmi del passato e una percezione del presente offuscata dalla propaganda. Come la stragrande maggioranza dei suoi connazionali, Navalny era infatti tiepido sui diritti degli omosessuali, ostile all’invasione dei migranti, iper-nazionalista, disinteressato o quasi alle questioni ecologiste, contrario alla celebrazione di Mikhail Gorbaciov che «ha distrutto il nostro prestigio di grande potenza», favorevole all’annessione della Crimea. Insomma, un «Putin buono e onesto»: l’unico in grado di essere capito da una massa di russi che ancora concede, nonostante tutto, al presidente in carica una discreta percentuale di gradimento. Niente a che vedere con i dati ufficiali, ma in ogni caso sorprendente per chi come noi vive in un altro mondo.
Del resto, non aveva mai avuto un disegno politico: «Non è il mio mestiere – confessava – io voglio solo elezioni vere che eleggano governanti in buona fede». Disegno diventato sempre più utopistico nel corso degli anni, davanti alla stretta del regime. Ma perfino dopo il primo avvelenamento e le cure in Germania decise di tornare perché: «Amo questo Paese, amo perfino questo clima schifoso, non posso lasciarlo in mano a questi ladri che ne hanno fatto una Disneyland per arricchiti». E adesso? Trovo in vecchi appunti una frase amaramente profetica: «Bisogna trovare una strategia e lavorare sodo. Mettere fiori sulle lapidi e like su Facebook non basta».