Libertà di stampa

Omicidio Rocchelli, la verità senza giustizia. Una storia paradigmatica

di Anna Dichiarante   19 marzo 2024

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Il 24 maggio 2014 il fotografo Andy Rocchelli moriva nel Donbass. Dopo quasi dieci anni, il quadro dei fatti c’è: fu un crimine di guerra ucraino. Ma manca la volontà politica di chiederne conto a Kiev. Anche se una sentenza definitiva dice che le violenze contro i giornalisti vanno perseguite

Donbass, Ucraina, 24 maggio 2014. Il fotoreporter pavese Andrea Rocchelli, trent’anni, è impegnato a documentare la vita della popolazione intrappolata negli scontri tra separatisti filorussi e forze regolari di Kiev, nei dintorni di Sloviansk. «Non parteggiava per nessuna fazione», spiegano Elisa e Rino, i suoi genitori: «A lui interessava la gente che resta nel cono d’ombra dei grandi avvenimenti e ne paga il prezzo più alto. Metteva le persone al centro, le ritraeva da un punto di vista alternativo, più vero, s’immergeva in crisi dimenticate. Da Haiti al Daghestan». Quel giorno, vicino alla ferrovia che segna la linea del fronte, viene ucciso da granate di mortaio.

 

Muore anche Andrej Mironov, 60 anni, attivista russo per i diritti umani che gli fa da guida. Rimane ferito il fotografo francese William Roguelon, 23 anni, che si muove con loro. A fare fuoco sono la Guardia nazionale e l’esercito ucraini: dalla collina del Karachun, dove sono appostati a difesa di un’antenna televisiva, osservano i movimenti dei tre, usando l’artiglieria leggera per allontanarli e poi quella pesante per colpirli. Sembra un incidente di guerra, ma è un agguato.

 

«In questi dieci anni si sono susseguite fasi di calma piatta, accelerazioni e frenate», continuano Elisa e Rino: «Nel 2016 il fascicolo aperto dalla Procura di Pavia per l’omicidio di Andrea era vuoto e si avviava all’archiviazione». La famiglia decide allora di rivolgersi all’avvocata Alessandra Ballerini e di andare a Sloviansk per ricostruire l’accaduto. Poi, la svolta. Il caso viene affidato al pm Andrea Zanoncelli: il magistrato scova una pista, convoca Roguelon, riattiva la domanda di assistenza giudiziaria all’Ucraina. Invano. Nel frattempo, però, in un taschino della custodia della macchina fotografica di Rocchelli, i colleghi del collettivo Cesura ritrovano la scheda di memoria con le sue ultime immagini. Le ha scattate nel fossato in cui si è riparato con Mironov e Roguelon, tracciando la sequenza temporale e l’avvicinarsi dei colpi. A pubblicarle per la prima volta è L’Espresso.

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Alla fine, l’insieme degli elementi investigativi porta a un sospettato: Vitaly Markiv, sergente della Guardia nazionale, cittadino ucraino e italiano. Arrestato e processato, nel 2019 viene condannato dalla Corte d’Assise di Pavia per concorso in omicidio. Nel 2020 la Corte d’Assise d’Appello di Milano lo assolve ritenendo non sufficientemente provato il fatto che abbia commesso il reato. Lui torna libero e vola a Kiev, dove riprenderà a combattere. Intanto, nel 2021, la Cassazione conferma la sentenza di secondo grado. E sono proprio le motivazioni di quella pronuncia a cristallizzare il quadro storico.

 

Il 24 maggio 2014, sul Karachun, le truppe ucraine seguono la consueta catena di comando. Markiv ha il compito di comunicare ai vertici gerarchici la presenza di estranei sul fronte, attendendo l’ordine di sparare con la mitragliatrice o fornendo le coordinate affinché i mortaisti centrino gli obiettivi. Tuttavia, non si dimostra che presti servizio nell’ora dell’imboscata e nella postazione da cui origina. A fiaccare l’impianto accusatorio, l’inutilizzabilità di otto testimonianze rese da suoi superiori e commilitoni: sebbene nei loro confronti possano esservi indizi di correità, non vengono esaminati con le specifiche garanzie previste dal Codice di procedura penale. Tra gli ufficiali c’è Bogdan Matkivskyi: la Procura di Pavia gli notifica l’avviso di conclusione dell’inchiesta-bis a suo carico, ma lui si rifiuta di ritirarlo.

 

Per i giudici d’appello, comunque, l’intensità e la direzione precisa dei colpi sparati dagli ucraini rivelano l’intenzione di eliminare Rocchelli, Mironov e Roguelon, pur riconoscibili come fotoreporter: «L’attacco ha avuto luogo senza alcuna provocazione e offensiva né da parte loro né da parte dei filorussi. È vero che la zona era sulla linea di tiro tra gli schieramenti, ma i giornalisti di guerra raggiungono proprio le linee del fronte per constatare e poi raccontare all’opinione pubblica ciò che avviene durante in conflitti. Si è trattato, quindi, di un ordine illegittimamente dato dai comandanti, perché in violazione delle norme che mirano alla protezione dei civili, ed eseguito dai militari». Pertanto, allo Stato ucraino «non può essere garantita l’immunità in presenza di comportamenti di tale gravità da configurarsi quali crimini contro l’umanità, che, in quanto lesivi di valori universali, trascendono gli interessi delle singole comunità statali».

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Invece, queste parole sono offuscate dalla vulgata imposta da Kiev: «La cassa di risonanza mediatica è in mano agli innocentisti e ai “patrioti”, con il supporto di frange radicali», commentano Elisa e Rino: «L’assoluzione è rappresentata come correzione di un errore giudiziario, mentre stampa e istituzioni ucraine costruiscono una narrazione eroicizzante di Markiv. Semmai bisogna riconoscere anche il valore della ricostruzione dei fatti consolidata in una sentenza ormai definitiva». A corroborarla, all’inizio del 2022, è un’indagine giornalistica trasmessa da RaiNews. Tra gli intervistati c’è un ex militare di stanza al Karachun nel 2014; l’ordine di sparare, dice, è stato impartito dal comandante della 95^ Brigata d’assalto aereo, Mykhailo Zabrodskyi: eletto in seguito parlamentare, nel 2023 è nominato vicecomandante in capo delle forze armate.

 

Ma l’invasione russa di febbraio congela ogni iniziativa dei magistrati italiani. La famiglia Rocchelli, quindi, presenta un esposto alla Corte penale internazionale dell’Aja, che ne recepisce la pertinenza e l’ammissibilità. «L’aggressione di Mosca ha polarizzato in maniera manichea il dibattito pubblico – concludono Elisa e Rino – la vicenda di Andrea è diventata un tabù, una questione politicamente sconveniente. Siamo convinti, al contrario, che chiedere conto di questo crimine di guerra all’Ucraina, con cui il nostro Paese si è schierato e che ambisce a entrare nell’Unione europea, non significhi sostenere Vladimir Putin, bensì praticare una politica estera degna di tale definizione».

 

Così, in un panorama internazionale in cui le violenze contro i giornalisti godono di sostanziale impunità, la storia di Rocchelli diventa paradigmatica. Perché dimostra come, qualora vi sia la volontà, tali crimini possano essere perseguiti. Perché non si è stabilita la responsabilità di singoli, ma quella di uno Stato. Perché non si è avuta giustizia, ma si è delineata la verità.