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Joël Dicker: «Scrivere per me è irresistibile: non potrei vivere senza. Ma dopo ogni libro penso di smettere»

di Mattia Insolia   28 marzo 2024

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Con la trilogia di Harry Quebert è diventato una celebrità. Ora lo scrittore svizzero torna a casa: con il romanzo "un animale selvaggio" ambientato a Ginevra. E con lo stesso implacabile ritmo. «Scrivere è spiare. Seguire i personaggi e la loro strada»

Sophie e Arpad hanno una vita perfetta: sono ricchi e belli, hanno una villa in mezzo ai boschi svizzeri e dei desideri da esaudire - fuoco che li porta avanti. Qualcosa però nel loro mondo si rompe, e devono farci i conti: i segreti che credevano di aver sepolto così bene da non esser più dei problemi del presente tornano alla luce - mostri che fanno calare la tragedia sul loro idillio. “Un animale selvaggio”  (La nave di Teseo) è il nuovo romanzo di Joël Dicker, il ginevrino che con i suoi libri precedenti ha venduto milioni di copie, diventando il maestro del thriller internazionale.

 

Dicker, dopo tanti romanzi ambientati negli Stati Uniti, è tornato alla sua Ginevra.
«Sono nato e cresciuto qui, e volevo raccontarla con i miei occhi».

 

Cosa le piace della città?
«I suoi quartieri periferici e che sia circondata dalla natura».

 

La villa della storia è in periferia ed è circondata dai boschi, in effetti, ma viene spiata da qualcuno.
«Quella presenza è necessaria a far cadere le apparenze: nella storia gli strati superficiali dei personaggi vengono sollevati».

 

I suoi protagonisti, Sophie e Arpad, hanno una vita perfetta: sono belli, giovani, ricchi. Ma è apparenza, appunto.
«Le apparenze mi interessano molto: sono figure che cuciamo addosso a chi ci circonda, su cui poi scriviamo un personaggio costruendone una nuova realtà. Riscriviamo sempre le persone che abbiamo attorno».

 

 

Nel mondo esistono tante versioni di noi quante sono le persone che incontriamo.
«Certo, e non riscriviamo solo le persone che non conosciamo, che conosciamo poco, ma anche quelle a noi vicine. Servono tempo e apertura per entrare in contatto con qualcuno, toglierci la maschera che indossiamo».

 

Questa è la terza volta che c’incontriamo, e l’ultima, due anni fa, ha detto che alla fine di ogni romanzo pensa okay, basta: questo è l’ultimo. Ma eccoci qui.
«Ma eccoci qui».

 

Ci vedremo una quarta volta, quindi?
«E chi lo sa».

 

Perché quando finisce un romanzo crede sarà l’ultimo?
«Scrivere per me è irresistibile: non potrei vivere senza. Eppure, ogni volta, un pensiero del genere mi sfiora, sì. Scrivere richiede lavoro e sacrifici e me ne rendo conto libro dopo libro. Però è un pensiero positivo: se nonostante tutto inizio a scrivere significa che la storia mi sta chiamando, che metterò in quelle parole ogni sforzo possibile. Come quando esci per una corsa: arrivi alla fine stremato, ti dici che non lo farai più, ma poi la voglia torna».

 

Continua a scrivere la mattina presto?
«Sì, mi sveglio alle quattro».

 

Scusi, ma perché così presto?
«Il mio cervello a quell’ora lavora meglio».

 

Non è stanco, poi?
«Sì, ma funziona. È un sacrificio, appunto».

 

Ancora a proposito di sacrifici, mi ha anche detto di essere spaventato all’idea di perder pezzi dell’infanzia dei suoi figli, viaggiando e scrivendo tanto.
«Sono riuscito a trovare un equilibrio».

 

Disciplina?
«Sono molto disciplinato, sì».

 

Nella scrittura?
«Nella vita, nella quotidianità, nei rapporti - famiglia compresa. La gente pensa che per me la disciplina sia fondamentale nella scrittura, in realtà lo sforzo devo operarlo negli altri aspetti della vita: essere disciplinato per me è sapere quando smettere di scrivere, capire qual è il momento di scollarmi dalla pagina».

 

Le sfide della paternità?
«Tantissime. Più si va avanti e più è difficile, e sa come si dice, no? Figli piccoli problemi piccoli, figli grandi problemi grandi. È però un’avventura stupenda».

 

La paternità ha cambiato la sua scrittura?
«Sì, ma ancora devo capire come».

 

Questo, in effetti, è il primo romanzo in cui i protagonisti hanno dei figli.
«Me ne rendo conto solo oggi, è stata un’operazione inconsapevole. La vita ci entra dentro, se fai lo scrittore entra nei libri».

 

Lei si è sempre professato uno scrittore d’istinto.
«Lo sono».

 

Senta, mi dica la verità, oggi - ché in passato mi ha sempre risposto di no. Non pianifica le sue storie?
«Non le ho mai mentito! (ride, ndr). Non pianifico niente».

 

Cosa la guida nella scrittura?
«Il piacere di scrivere, di seguire i protagonisti per la loro strada. Mi piace guardarli, osservarli, studiarli».

 

Il piacere è fondamentale.
«La vita è breve».

 

Le risulta facile?
«Mi risulta naturale, ma non vuol dire sia facile. Ci sono tante sfide da superare, ma sono parte della vita e del mestiere di scrivere. È come nello sport: decidi di uscire per una corsa, ti va di farlo, ma magari fuori piove: lo fai lo stesso».

 

È la seconda volta che usa la corsa come esempio.
«Amo correre».

 

Lo fa abitualmente?
«Una volta alla settimana, sto invecchiando e non riesco a fare di più però corro per quindici chilometri, non mi sembra poco».

 

Dicker, ma lei ha trentotto anni.
«Gli acciacchi ci sono già».

 

Ai giovani scrittori che la leggono pensa mai? Lei ha influenzato una generazione.
«Solo quando faccio gli incontri nelle librerie. In quelle occasioni, sono in tanti a pormi domande sulla scrittura. È bellissimo».

 

E quando scrive?
«Alzo un muro fatto solo dei dubbi personali, che hanno a che fare con la storia, è necessario a non farmi influenzare dal mondo: quando scrivo ho la necessità di star da solo con i personaggi».

 

Non si sente schiacciato dall’idea di milioni di persone che la leggeranno?
«No, mai. Procedo per piccoli passi. Quando pubblico un romanzo e quindi poi vado in giro a parlarne, in realtà, quel libro l’ho già chiuso da mesi, questo fa sì che in testa abbia un nuovo progetto, un’idea diversa».

 

Scrittori che ispirano altri: uno che ha ispirato lei?
«Tanti. I più importanti sono quelli che i miei genitori mi leggevano da piccolo».

 

A proposito di loro.
Mia madre era libraia, mio padre insegnante. C’era molta curiosità attorno ai libri che riempivano gli scaffali, curiosità che mi hanno trasmesso.

 

L’hanno mai forzata a leggere?
«No e di questo gli sono grato: mi hanno fatto comprendere che leggere è un piacere, non un obbligo. Se un libro non mi piaceva e volevo mollarlo, mi incoraggiavano».

 

Tornando a “Un animale selvaggio”: i protagonisti hanno molti segreti.
«Chi non ne ha? Temiamo l’impatto della verità sugli altri quindi ci chiudiamo. Ma le parti di noi che precludiamo a chi abbiamo attorno, alla fine, s’interpongono tra noi e chi amiamo».

 

Siamo e saremo sempre chi siamo stati?
«Pezzi di noi, del nostro passato, sono destinati a restare in noi per sempre».