L’attentato dell’Isis aggrava il senso di accerchiamento della Federazione. Ora all’Ucraina si aggiunge il mai sconfitto nemico islamico. E il dittatore cerca di sfruttare la situazione a suo vantaggio

Quello che resta dopo le lacrime, i fiori, le preghiere per l’orrore del Crocus City Hall è quell’inquietante senso di accerchiamento che i russi provano da secoli e che puntualmente li fa stringere compatti attorno all’uomo forte del momento. Vladimir Putin conosce bene questa situazione e si prepara a sfruttarla come ha sempre fatto nei suoi venticinque anni al potere.

 

Certo non sarà facile perché l’accerchiamento non è mai apparso così reale. Concentrato sul fronte Occidentale e sulla guerra di Ucraina, il presidente ha infatti finito per trascurare il nemico più antico e feroce, l’Islam integralista che tra Caucaso e Asia Centrale combatte la Russia dal tempo degli zar e che con il massacro del 22 marzo ha inviato un macabro promemoria al Cremlino e soprattutto ai cittadini russi.

 

Curioso rapporto quello tra il terrore islamico e la credibilità di Putin. Decine di attentati dal 2000 a oggi hanno seminato il panico nel Paese e ogni volta sono stati necessari interventi spettacolari e massicce colate di propaganda per restituire la fiducia alla popolazione che teme «l’Islam cattivo» più di ogni altra cosa. E proprio questo bisogno di sicurezza è alla base di un consenso (almeno il 60 per cento secondo sondaggi indipendenti) di cui Putin gode presso i suoi connazionali. Niente a che vedere con le cifre pacchianamente ritoccate delle elezioni appena concluse, ma comunque consenso reale.

 

Per rassicurare i cittadini si è cominciato con spettacolari deportazioni, in diretta tv, di immigrati tagiki più o meno irregolari ed è pure prevista qualche azione particolarmente scenografica nello stesso Tagikistan, ex repubblica sovietica, cuore del cosiddetto Isis orientale o Isis-K, dove l’esercito russo è già intervenuto tempo fa su richiesta dell’autocrate locale Emomali Rahmon. E come sempre si useranno metodi efferati e poco convenzionali come si è già visto nelle prime ore post-strage con tanto di orecchie tagliate, bastonate, torture ostentate.

 

Un soldato di guardia davanti al luogo dell’attentato

 

Storia antica delle guerre russe verso Est molto diverse da quelle, più convenzionali, combattute verso Ovest. Torture e sevizie che da quelle parti si commettono senza tante remore, i russi imparano a conoscerle alle elementari leggendo gli scritti letterari ma raccapriccianti di Lermontov e di Tolstoj sulla ferocia dei ribelli del Caucaso. Le hanno constatate sui corpi e nei racconti dei reduci dall’invasione sovietica dell’Afghanistan; le hanno viste usate “a fin di bene” dai tagliagole del dittatore ceceno Ramzan Kadyrov usato da Putin per fermare nel sangue le rivolte di Grozny.

 

Ma per contrastare il rinascente sogno armato del Califfato, rinvigorito dalla fuga americana dall’Afghanistan e accecato dall’odio nei confronti della Russia, ci vogliono forze e attenzioni che Mosca in questo momento non ha. Molto si è scritto ad esempio della sottovalutazione dell’allarme dei servizi segreti americani e occidentali su un possibile attentato in un teatro di Mosca. Putin aveva pure fatto l’offeso rimediando una colossale brutta figura. Ma la realtà sarebbe diversa e forse ancora più preoccupante per i russi. L’Fsb e la polizia avevano preso sul serio l’allarme e fatto tutto quello che sono in grado di fare. Avevano pure smantellato una centrale Isis nella capitale ma non sono stati in grado di fiutare altri pericoli. Tutte le strutture di intelligence e le unità militari dirottate sull’Ucraina hanno reso deboli e inefficaci gli altri fronti. E quella parte di servizi segreti non impegnata sul fronte europeo viene orientata soprattutto sulla repressione del dissenso. Capita così che, per la gioia dei complottisti, migliaia di poliziotti compaiano a stroncare a manganellate anche una piccola manifestazione giovanile e che nessuno invece si accorga di un’irruzione dell’Isis in città.

 

«La capitale blindata» è in realtà un tormentone del regime pigramente riportato da molti media occidentali. Per blindare una città di 22 milioni di abitanti con 228 stazioni della metropolitana, centinaia di teatri, cinema, palazzetti dello sport, scuole, alberghi, se non hai una intelligence attendibile avresti bisogno di uno schieramento di forze gigantesco e irrealizzabile. Davanti ai luoghi pubblici, come quella sera al Crocus, c’è un controllo puramente simbolico svolto da guardie giurate sottopagate, mal addestrate e spesso neanche armate. Ti invitano a passare attraverso il metal detector e sono leste a chiederti di mostrare monete e mazzi di chiavi. Ma davanti a un commando che arriva in corsa sparando raffiche di mitra non possono che soccombere come i poveri guardiani del Crocus caduti per primi.

 

Un vecchio poliziotto come Putin tutto questo lo sa e, al di là delle dichiarazioni di facciata, ha già detto ai suoi di accettare la collaborazione offerta dai servizi occidentali contro il nemico comune. E con la consueta doppiezza sono stati sollecitati anche i servizi dell’alleato Iran, anch’esso nel mirino del Califfato.

 

 

L’emergenza comunque servirà a rendere più facile il reclutamento previsto per metà aprile di almeno 300 mila giovani da inviare al fronte contro l’Ucraina. Giornali e tv parlano di un ricambio per fare respirare gli attuali combattenti. Sarà invece un rinforzo per un’offensiva che dovrebbe facilitare poi l’inizio di una trattativa da posizioni di forza. Non a caso, parlando della strage del 22 marzo, si continua a lanciare qualche vaga allusione senza fondamento a una complicità ucraina, tanto per tenere alta la tensione. I distretti militari sono stati avvertiti di evitare il più possibile di coinvolgere giovani di Mosca, San Pietroburgo e delle grandi città e di affondare la ricerca di carne da macello nelle terre sconfinate e periferiche dell’Impero per evitare contestazioni e fughe di massa. Ma la nuova situazione di patriottismo forzato faciliterà certamente le cose.

 

In attesa di sviluppi sui due fronti di guerra, il regime prova a sfruttare l’onda della paura e dell’indignazione per limitare ancora di più i diritti civili. Le idee vengono come da copione lanciate da personaggi politici ininfluenti e pittoreschi tanto per misurare la reazione del pubblico. Si va dal divieto di riunioni pubbliche a pure follie come la chiusura delle università o la cacciata di tutti gli emigrati regolari e no. Ma quella che trova consensi inevitabili è il ripristino della pena di morte sottoposta a moratoria nel 1996 e mai applicata da allora. Putin finge di disinteressarsene per affidarsi alla Corte costituzionale, che però fa sempre quello che dice lui. Tra gli amici di Aleksej Navalny si commenta con grande amarezza: «Pena di morte? Quando è servita l’hanno sempre usata».