Stati Uniti
Il Colorado dimostra che legalizzare la marijuana conviene a tutti
Dieci anni fa il paese degli Stati Uniti ha depenalizzato commercio e uso di cannabis. Risultato? L'erario ci ha guadagnato e la criminalità è diminuita. E ora il tema potrà essere decisivo nelle elezioni
Quando Charles apre la porta blindata della serra, una zaffata tiepida e dolciastra invade le narici: l’odore è inconfondibile. Le rigogliose piante di cannabis sono in fiore e tra qualche tempo saranno pronte per la lavorazione nei laboratori di Seed & Smith, tra le prime aziende a coltivare e distribuire marijuana in Colorado.
Sono passati esattamente dieci anni da quando nello stato iniziarono ad alzare le saracinesche decine di business. Due anni prima, nel 2012, il 55% dei cittadini aveva votato per modificare la Costituzione ed approvare la legalizzazione della marijuana ad uso ricreativo. Pionieri per tutta l’Unione. Da allora, altri ventitré stati, due territori e il Distretto di Columbia, sede della capitale, hanno seguito l’esempio (l’utilizzo a fini terapeutici è consentito in ben 38 stati). Un effetto domino che però non ha avuto ripercussioni a livello federale, dove la sostanza resta illegale, provocando un cortocircuito legislativo che include, tra mille impasse, anche l’impossibilità di accedere ai servizi bancari nazionali o il trasporto interstatale.
È per questo che oggi le associazioni di categoria invocano una riforma organica che tarda ad arrivare, nonostante sia da tempo appuntata sul taccuino del presidente Joe Biden che lo scorso 7 marzo ha incluso il tema, per la prima volta, nel discorso annuale sullo Stato dell’Unione. L’esperimento Colorado, dal 2014 ha fruttato oltre 15 miliardi di dollari ed ha assicurato nelle casse dello stato 2,6 miliardi in tasse, impiegati nel settore dell’istruzione pubblica, dei trasporti, della prevenzione. Senza contare il boom di turisti, attratti non più soltanto dalla bellezza mozzafiato dei paesaggi e delle spettacolari catene montuose del Centennial State.
Le nuove attività hanno dato lavoro ad oltre quarantamila persone. Inclusi operai come Charles, impiegati nella coltivazione, nella raccolta, nella lavorazione e nella distribuzione. E le profezie nefaste degli scettici non si sono ancora verificate. «Infondati i timori legati all’aumento di dipendenze e criminalità», ci spiega Molly Duplechian, direttrice esecutiva del Dipartimento Imposte e Licenze di Denver, che ha seguito fin dall’inizio l’apparato tecnico e normativo che ha traghettato il Colorado nell’era della cannabis. «Abbiamo confrontato i dati relativi alla criminalità raccolti prima e dopo la legalizzazione. Non c’è stato impatto né aumento». Ma sono altri i numeri a colpire. «Un’indagine recente ha mostrato una diminuzione piuttosto drastica nell’utilizzo di droghe da parte dei giovani». Per Duplechian il merito è di campagne mirate ad educare i ragazzi sui rischi delle sostanze assunte prima dei 21 anni, quando il cervello è in fase di formazione. Difficile ripensare agli inizi. «Era tutto controverso. Quando ho detto ai miei genitori che avrei lavorato nel campo della regolamentazione della marijuana, sono rimasti di stucco», scherza la funzionaria. «Abbiamo percorso molta strada come città, come stato e come Paese. Senza il lavoro fatto in Colorado, molti altri stati non avrebbero accettato la legalizzazione», conclude.
«Una rivoluzione», la definisce Charles, mentre ci fa strada tra gli scaffali della bottega annessa al suo stabilimento, a nordest di Denver. Il logo con le foglie dentate sigilla un ventaglio assai ampio di prodotti che i navigati “budtender” (lo slang per gli esperti dei dispensari) sanno ben consigliare. Canne già rollate, sigarette elettroniche, dolciumi, candele, oli per il corpo. Ed ovviamente un corredo di merchandising per gli evangelisti della legalizzazione, dalle magliette ai cappellini. Tutto venduto con regolare scontrino fiscale, ma in contanti. «Non possiamo accettare carte di credito; visto che la cannabis è illegale a livello federale, le banche non ci lasciano aprire conti correnti né concedono prestiti», spiega Charles, scoperchiando le contraddizioni del sistema America. L’oceanica quantità di cash è un grosso problema. «Ditte come Seed&Smith possono permettersi un blindato, ma quelle più piccole come fanno?», chiede, mentre ci indica il poliziotto che sorveglia l’azienda per evitare rapine. «Non possiamo continuare in questo limbo. È ora che Congresso e presidente si diano una mossa».
Ed effettivamente Biden non può concedersi di prendere sottogamba la questione, in vista delle elezioni di novembre. Intanto perché i sondaggi confermano l’aumento degli americani favorevoli alla legalizzazione, il 70% per Gallup. La faccenda è trasversale visto che l’uso di cannabis non è più un tabù non solo per l’87% dei democratici, ma anche per il 55% dei repubblicani. E i più entusiasti sono i giovani (otto su dieci, tra i 18 e i 34 anni), la fetta di elettorato più sfuggente e disaffezionata. A essa se ne aggiunge un’altra di pari rilevanza, quella degli afroamericani, vittime sin dagli anni ’70 dell’impatto sproporzionato delle incarcerazioni di massa seguite alla “War on Drugs” (i neri continuano ad avere quattro volte più probabilità dei bianchi di essere arrestati per reati legati all’uso e al consumo di marijuana). In una corsa che si prospetta come un testa a testa con l’avversario proibizionista Donald Trump, anche una manciata di voti - nei principali stati in bilico - potrebbe scoprirsi essenziale.
Bisognerà riconquistare fiducia, visto che ad oggi le azioni di Biden, lamentano gli attivisti, non sono state ambiziose quanto la promessa fatta nella campagna elettorale del 2020 di mettere fine alla criminalizzazione. Al presidente, però, va dato atto di un paio di provvedimenti parziali nel 2022 e nel 2023 che hanno concesso la grazia a migliaia di condannati per reati federali di droga non violenti legati al possesso e all’uso (non applicabili a livello statale, nonostante l’appello ai governatori a seguire l’esempio); Biden, poi, ha incaricato il Ministero della Salute di valutare la riclassificazione della marijuana dalla categoria 1 (la più restrittiva, che include eroina, Lsd ed ecstasy) alla categoria 3, destinata alle sostanze accettate per uso medico con ridotte sanzioni e restrizioni; dopo il parere favorevole, la palla è passata alla Drug Enforcement Administration che potrebbe presto esprimersi. Certo, l’ala più progressista avrebbe piuttosto optato per la completa eliminazione, che l’avrebbe di fatto depenalizzata a livello federale.
Al momento una proposta di decriminalizzazione, approvata alla Camera nel 2022, è paralizzata al Senato, nonostante il placet di Chuck Schumer; il leader della maggioranza, tuttavia, non esclude che il parlamento possa fare qualche concreto passo in avanti prima delle elezioni con un disegno bipartisan che almeno permetta l’accesso alle istituzioni finanziarie. «Ma questo Congresso non sarà in grado di approvare la legalizzazione. Ci vorrà tempo», dice Michael Correia, direttore delle relazioni governative della National Cannabis Industry Association, notando che gli ostacoli arrivano da entrambi i partiti. Per il lobbista legalizzare significa anche abbattere il mercato nero e i rischi per la salute legati a sostanze non controllate. Secondo qualche stima, il giro di affari losco potrebbe addirittura doppiare quello legale (che lo scorso anno ha toccato i 33,5 miliardi di dollari). A far da padrona la malavita cinese, arrivata a controllare gran parte dell’illecito. Una legge federale, ci spiega Correia, abbasserebbe le aliquote, oggi altissime, e permetterebbe un contenimento dei prezzi. Una mannaia sulla testa del crimine organizzato.