Russia

Quella di Vladimir Putin contro l'Occidente ormai è una guerra santa

di Sabato Angieri   9 aprile 2024

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Migliaia di altri coscritti mobilitati. Il potenziamento dell’industria bellica. E il controllo dei consensi. Dopo l’attentato, Mosca serra i ranghi

Quasi 150 mila nuovi coscritti entro l’estate per quella che il patriarca ortodosso Kirill ha ormai apertamente definito una «guerra santa» contro l’Occidente. Non solo scontro militare, ma «battaglia esistenziale e di civiltà», mescolata al nazionalismo, all’espansionismo travestito da «liberazione della Russia sud-occidentale» (ovvero dei territori ucraini occupati) e da difesa del popolo russo dal mondo corrotto del «globalismo». Non può sfuggire che uno dei primi personaggi russi a permettersi l’uso del termine «guerra», e non «operazione militare speciale», sia la massima autorità religiosa del Paese. La fusione tra politica, clero, élite culturali e mondo dello spettacolo favorita dal Cremlino ha ormai creato una sorta di religione nazionale nella quale confluiscono indistintamente concetti che vanno dal panslavismo alla ricerca di un nuovo ordine mondiale. Vladimir Putin vuole una Russia in stato di guerra permanente contro quella parte del mondo guidata dagli Usa e, per averla, non può permettersi voci critiche. Come durante la prima guerra mondiale, si invita la nazione a essere coesa contro il nemico, barbaro e aggressivo, che cerca di distruggere il buon vecchio mondo delle tradizioni secolari.

 

Bisogna produrre più armi e le industrie belliche stanno lavorando a ritmi inimmaginabili prima della guerra. Secondo quanto dichiarato da Putin il 2 febbraio scorso a Tula, attualmente in Russia sono attive seimila aziende che producono per la Difesa e 10 mila che collaborano indirettamente con il settore militare, per un totale di 3,5 milioni di dipendenti, dei quali 520 mila sono stati assunti dopo l’invasione dell’Ucraina. Il tutto per un indotto di miliardi di rubli, circa il 6% del Pil della Federazione russa. Diciamo subito che diversi analisti hanno ridimensionato queste cifre abbassando le stime a una percentuale tra il 3 e il 4. Tuttavia, il dato significativo (e inequivocabile) è che l’apparato militare di Mosca, pur con tutte le sue difficoltà, ha resistito ed è riuscito ad adattarsi alla grande richiesta generata dal conflitto contro le truppe di Kiev. Nonostante i proclami di una parte di commentatori occidentali, che per mesi hanno sostenuto che i depositi delle forze armate russe fossero vuoti e che fosse ormai impossibile riempirli. La produzione militare è uno dei settori chiave che hanno permesso all’economia russa di resistere malgrado le sanzioni occidentali. L’altro sono gli idrocarburi, venduti nei nuovi mercati asiatici, cinese e indiano in modo particolare. Ma a quale prezzo?

 

Se è vero che a costo di grandi sacrifici per le fasce meno abbienti il Cremlino può contare su un Paese tutto sommato stabile economicamente, anche se non prospero, la chiusura all’Europa occidentale è stata uno shock per gli ambienti culturali russi. Se tutto ciò che si fa a Ovest di Minsk è male, comprese le riforme sui diritti civili, è logico che in Russia il controllo sulla società debba stringersi sempre di più. E non solo per quanto riguarda le libertà personali, come, ad esempio, l’orientamento sessuale. Possiamo adattare il discorso quasi a tutti i piani della vita quotidiana. Non si può criticare la guerra perché si getta «discredito sulle forze armate» e si viene puniti con multe e galera; non si può criticare il governo perché esistono vari reati, vecchi e nuovi, di cui si può essere accusati quasi senza appello.

 

 

Chi può permettersi di criticare il Cremlino apertamente nella Russia di oggi lo fa da posizioni ancora più estreme. Si tratta di ultranazionalisti e di esponenti di una destra ancora più estrema di quella al governo che chiedono la distruzione dell’Ucraina o dimostrazioni di forza contro la Nato. I personaggi più in vista in questa cerchia sono senz’altro l’ex presidente Dmitrij Medvedev, il presentatore tv Vladimir Solovyov, il filosofo Aleksandr Dugin, l’oligarca e fondatore della piattaforma Tsargrad, Konstantin Malofeev. Putin in generale li lascia parlare, perché nella pratica sono solo un’esasperazione di quanto il governo sta facendo. Nessuno in buona fede potrebbe considerarli una vera opposizione. Poi, quando bisogna dare una lezione, cade qualche testa: è successo con l’attentato all’ex comandante della compagnia di mercenari Wagner, Yevgeny Prigozhin, o con l’incarcerazione di Igor Girkin. E i falchi si calmano. Tuttavia, dopo l’attentato alla sala concerti Crocus del 22 marzo scorso, l’opinione pubblica russa si è spaventata. E nella paura prosperano i capi e i teorici dell’estrema destra che possono finalmente inneggiare all’attacco preventivo come difesa, sostenere il ripristino della pena di morte e i processi lampo; trovano voce i razzisti, che già accusano indistintamente tutti i centro-asiatici di essere membri dell’Isis pronti a minacciare le basi della società e invocano pogrom, oltre ai complottisti che vedono il mondo solo come scontro di poteri occulti votati alla distruzione.

 

In Ucraina, intanto, si è a un punto di svolta. Persino alti ufficiali di Kiev hanno ammesso alla rivista Politico che il rischio che le linee del fronte crollino sotto la spinta dell’esercito russo è più alto che mai: le munizioni sono poche, gli uomini stanchi e il nemico ha ammassato altri 150 mila soldati (la nuova mobilitazione) dall’altro lato delle trincee. A breve è attesa una nuova offensiva in forze che tenterà di occupare tutto il Donetsk in modo da permettere allo zar di annunciare: «I nostri fratelli russi sono stati liberati dal giogo del regime neonazista di Kiev». Come ha fatto ininterrottamente negli ultimi due anni. Intanto, agli altri «fratelli russi», quelli che già vivono nel territorio amministrato dal Cremlino, continuano a essere tolte libertà. E per chi si ribella il futuro è nero.