Nel quadro delle tensioni geopolitiche tra Putin e l'Occidente, il Paese del Caucaso torna a essere un osservatorio di rilievo, potenzialmente infiammabile

«Imbracciano i fucili, dicono che la terra è loro, ma io non ho paura e glielo grido: questa è casa mia, non me ne andrò mai». Valia Valishvili, 89 anni, parla attraverso un muro di filo spinato, contro cui, malferma, batte con collera il bastone da passeggio. Inveisce in direzione di una baracca, una postazione militare russa a qualche decina di metri dalla sua abitazione. Da una feritoia, i soldati scrutano i visitatori dell’anziana donna.

 

In questa valle punteggiata di alberi da frutto corre un confine riconosciuto solo da cinque Paesi al mondo. E una mattina del 2013, Valishvili si è svegliata dal lato sbagliato. Il suo podere ancora in Georgia, la casa nell’autoproclamata Repubblica dell’Ossezia del Sud, una regione separatista sostenuta da Mosca ma considerata dalla comunità internazionale come territorio di Tbilisi. Il villaggio di Khurvaleti è chiuso su tre lati da spirali di concertina che squarciano le vite degli abitanti, separandoli da familiari, campi, pascoli, risorse idriche, luoghi di culto, persino il cimitero è falciato a metà. Sulle colline tutt’intorno torri e posti di osservazione. La notte è spezzata dal latrato dei cani impiegati nel pattugliamento.

 

Khurvaleti non è un’eccezione: ci sono decine di villaggi lungo i 400 chilometri che russi e osseti considerano una frontiera di Stato, la cui delimitazione è ancora in corso. Siamo nel cuore di uno dei conflitti originati dalla dissoluzione dell’Unione sovietica. E che nel quadro delle tensioni geopolitiche tra Russia e Occidente torna a essere un osservatorio di rilievo, potenzialmente infiammabile. 

 

Negli anni ’90, la Georgia si è scontrata con la volontà di indipendenza di due regioni, sotto la sua giurisdizione in era sovietica seppur con status autonomo: l’Ossezia del Sud, appunto, e l’Abkhazia. Al termine di guerre segnate da gravi abusi sui civili, Tbilisi ha perso il controllo su entrambi i territori. Gli accordi di cessate il fuoco, mediati da Mosca, prevedevano il dispiegamento di peacekeeper russi. Circostanza che si rivelerà gravida di conseguenze. Nell’agosto 2008, in quella che oggi è largamente letta come la prima mossa della Russia per ristabilire la propria sfera d’influenza nello spazio postsovietico, Mosca invade la Georgia. All’apice di contrasti con quest’ultima, guidata dal filoatlantista spericolato Mikheil Saakashvili, e nel contesto del ritorno alle ostilità tra Tbilisi e Tskhinvali, capitale de facto dell’Ossezia del Sud, la Russia avvia un’operazione militare su larga scala contro il piccolo vicino, sbaragliandone l’esercito in pochi giorni. La capitolazione della Georgia è scongiurata dalla mediazione europea, ma, dopo la tregua, Mosca riconosce l’indipendenza dei due territori. Il Cremlino si era impegnato a ritirare le sue truppe sulle posizioni precedenti al conflitto. Al contrario, si insedia in forze nelle regioni contese.

 

«Quella è una base russa»: Kimberly Wise è un osservatore della missione di monitoraggio dell’Unione europea (Eumm), impegnata nel mantenimento della pace. In cima a un’altura, indica il vasto complesso militare che domina le colline dal lato opposto. In mezzo, il villaggio di Dvani. «Alcuni abitanti – racconta – hanno perso la terra, altri continuano a coltivarla malgrado i rischi che comporta lavorare sulla linea di demarcazione, altri ancora se ne sono andati per paura». Decine di georgiani vengono arrestati ogni anno dai russi per aver varcato il «confine», e non di rado si tratta di contadini o pastori che si ritrovano inavvertitamente nelle zone occupate. Non tutte le aree sono segnate dal filo spinato: alcune sono monitorate da telecamere o sensori, in altre può esserci anche solo un cartello con scritto «frontiera di Stato». Una linea mobile, denunciano i georgiani, che accusano Mosca di continuare a fagocitare terra. 

 

«I russi sostengono di usare mappe degli anni ’80», afferma Olesya Vartanyan, analista dell’International Crisis Group. «La frontiera amministrativa dell’Ossezia del Sud è mutata tante volte». E la scelta di una determinata mappa può stabilire il destino di un villaggio. In un caffè nel centro di Tbilisi, David Katsarava mostra dal suo cellulare filmati di postazioni militare russe. «Questo è un checkpoint e di fronte un blindage: lì sotto c’è una trincea scavata nel terreno». Ex attore, body builder, volontario in Ucraina con Kiev, ha fondato nel 2017 un movimento di «patrioti disposti a pattugliare con regolarità la linea di occupazione». Frustrato, dice, dall’inazione di Sogno georgiano, il partito al potere dal 2012 che ha battuto Saakashvili con un programma improntato al pragmatismo nei confronti di Mosca, ha deciso di combattere «il furto di terra». E crede che il Cremlino stia preparando una possibile guerra. «Dal marzo 2023 i russi hanno iniziato a costruire nuove trincee e postazioni di tiro», rivela Katsarava che fa volare i suoi droni sui territori occupati. Il periodo coincide con quello delle violente proteste a Tbilisi scatenate dal progetto di legge sugli «agenti stranieri». Il governo, in seria difficoltà, l’aveva ritirata, temendo una reazione a catena dal potenziale epilogo rivoluzionario. In quei giorni i russi si sono esibiti in esercitazioni sulla linea di demarcazione. «Un segnale chiaro», nota Vartanyan: «Un cambio di leadership incrinerebbe lo status quo».

 

La vulnerabilità della Georgia è tale che, riferisce l’analista, anche i membri dell’opposizione più bellicosa, in via confidenziale, confidano che se andassero al governo sarebbero costretti ad assumere una postura non conflittuale. Ma, aggiunge, «se al potere tornassero persone coinvolte nella guerra del 2008, per la Russia sarebbe un’immediata red flag». «Per destabilizzare questo Paese, Mosca ha bisogno di poco: con un semplice movimento del filo spinato creerebbe in un attimo migliaia di rifugiati. E i russi hanno le infrastrutture militari già sul posto, vicine a luoghi strategici», conclude Vartanyan.

 

La Georgia è tornata nelle ultime settimane alle dimostrazioni di massa: il governo ha ripresentato la stessa legge ritirata l’anno scorso, ma stavolta intende andare fino in fondo, reprimendo le proteste con tutta la durezza necessaria. E il Paese del Caucaso torna a navigare in acque tempestose. Dalla sua terrazza nel villaggio di Ergneti, Lia Chlachidze può vedere Tskhinvali, la città dove è nata e da cui è dovuta scappare negli anni ’90. Il “confine” con l’Ossezia del Sud passa a pochi metri dalla sua casa. Talvolta, la musica che arriva dall’altro lato del filo spinato le ricorda la giovinezza. «Se non fosse per i russi, sono certa che risolveremmo le nostre dispute». Ma la geografia non si cambia e influenzerà sempre il destino della Georgia.