L’orrore di Bucha e le atrocità in Ucraina sono solo l’ultimo atto. Dalla Georgia alla Cecenia, passando per la Siria, il modo di operare dell’esercito russo è noto

Nella storia europea ci sarà un prima e un dopo Bucha 2022. Un prima e un dopo la scoperta dei massacri gratuiti su civili inermi per mano russa. Su uomini, donne e bambini. Torturati fino alla morte. Uteri sventrati e neonati bruciati vivi. Uccisi per rabbia o per divertimento. Uccisi perché si poteva farlo, con l’avvallo di una élite russa determinata a imporre una nuova russificazione alle regioni del vecchio impero, spacciandola per denazificazione. Sono orrori che lasciano sgomenti. Con la sensazione di non conoscere il volto vero della Russia. Come se gli ultimi 25 anni di oligarchi a yacht e vodka e gas senza freni fossero stati una grande sbronza collettiva di un’Europa ansiosa di lasciarsi per sempre alle spalle la pesante eredità del Novecento. Senza riuscirci. E di una Russia che non si è mai voluta guardare allo specchio, ancora rancorosa e incredula, a trent’anni dalla fine del suo impero.

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La brutalità della guerra in Ucraina non avrebbe però dovuto sorprenderci. Innanzitutto perché, come risulta ogni giorno più chiaro, non è iniziata il 24 febbraio 2022, ma nel febbraio 2014, subito dopo la destituzione da parte della società civile dell’allora leader pro-russo Victor Yanukovich. Una rivoluzione, quella di piazza Maidan, che ha convinto Vladimir Putin a pianificare l’invio dei carri armati per riprendersi ciò che non ha mai smesso di considerare suo, e fermare l’espansione a Est dei valori occidentali. Ma anche perché gli ucraini avevano già iniziato a subire crimini di guerra: nel 2014 Kiev aveva accettato, per la seconda volta, la giurisdizione della Corte di giustizia penale internazionale, pur non avendone ratificato il trattato di Roma del 2001, per portare in tribunale i crimini russi commessi durante l’invasione della Crimea e del Donbass e la creazione delle repubbliche separatiste di Luhansk e Donetsk.

Il personaggio
Karim Ahmad Khan, l'accusatore dell’Aja che indaga sui crimini di guerra di Vladimir Putin
21/3/2022

In senso inverso la Russia, pianificando la conquista, nel 2016 aveva deciso di uscire da quel trattato per non trovarsi a rispondere dei suoi crimini. «L’allora procuratrice della Corte penale internazionale aveva iniziato l’esame preliminare per vedere se ci fossero elementi sufficienti ad aprire un’indagine», spiega Marina Mancini, docente di Diritto internazionale penale alla Luiss di Roma: «Le conclusioni del 2020 affermano che esistono elementi per ritenere che siano stati commessi crimini di guerra e crimini contro l’umanità in Crimea e crimini di guerra in Donbass».

 

L’attuale procuratore Karim Khan il 2 marzo, dopo il deferimento di ben 39 stati, tra cui l’Italia, ha riaperto il fascicolo e annunciato un nuovo avvio dell’indagine che, oltre ai crimini commessi nelle regioni occupate, include anche quelli commessi a partire dal 24 febbraio 2022 sull’intero territorio ucraino. Crimini che non credevamo più possibili. Ma contro cui ha subito puntato il dito il presidente Usa Joe Biden, definendo senza mezzi termini Putin «un macellaio» già lo scorso 25 marzo. Eppure l’aggressione russa dell’Ucraina, spacciata come liberazione, non è un avvenimento inusuale o sorprendente. A guardare nei cassetti della storia di Mosca, di antecedenti simili, su scala minore o più lontani da Bruxelles, dunque da noi, se ne trovano tanti. Troppo velocemente dimenticati o colpevolmente sottovalutati da quell’Europa che il 25 marzo 1947 aveva firmato il Trattato di Roma dicendo «mai più» e che oggi si ritrova difronte al ripetersi della Storia.

 

Dopo avere deportato migliaia di cittadini nel 2006, nel 2008 Mosca ha condotto una guerra lampo di una settimana in Georgia: nessun massacro ma un ampio bombardamento dei civili con bombe a grappolo. Risultato: l’Ossezia del Sud diventa Stato indipendente. Solo temporaneamente però. Lo scorso 31 marzo, il leader separatista Anatoly Bibilov ha indetto un referendum per l’annessione immediata alla Russia da tenersi all’indomani delle «elezioni presidenziali» del 10 aprile. Prima ancora, e siamo negli anni Novanta, la Russia aveva aggredito la Cecenia, causando oltre 100mila morti, per lo più civili, distruggendo la capitale Grozny e utilizzando lo stupro e la tortura dei civili come arma di guerra.

 

E poi la Siria, dove nel 2015 Vladimir Putin è intervenuto militarmente a favore del presidente Bashar al-Assad, dopo averlo sostenuto economicamente per anni e avere rifiutato in seno al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di avallarne le dimissioni chieste dal Consiglio stesso. Con l’intervento russo non solo furono colpiti l’esercito dell’Isis e l’esercito libero siriano ma anche ospedali e strutture sanitarie gestite da civili. Come sta succedendo ora in Ucraina. Uno schema che si ripete. Secondo l’ong britannica Airwars, gli incidenti contro i civili in Siria aumentarono di un terzo dopo l’intervento russo.

 

D’altronde le modalità belliche di Mosca sono note da decenni. Nel 1943 furono addirittura i nazisti a trovare a Katyn le tombe comuni di 21.768 cittadini polacchi, per lo più ufficiali dell’esercito e intellettuali, uccisi nel 1940 per mano dell’Nkvd, l’allora organo della sicurezza militare russa, dopo che, come da consueta propaganda, la Russia di Stalin aveva invaso la Polonia «in soccorso» dei fratelli bielorussi e ucraini rimasti intrappolati nel territorio polacco. Furono Mikhail Gorbaciov e poi Boris Yeltsin ad ammettere il massacro e, quest’ultimo, a scusarsene, anche se ancora rimane sconosciuta la sorte di altri 100mila ufficiali polacchi. Pochi anni dopo, con la fine del nazismo, i russi «liberarono» i territori dell’Europa orientale. Lo fecero a modo loro. Con una serie di stupri di massa condotti contro le donne tedesche e polacche di età compresa tra i 9 e gli 80 anni. Stupro punitivo come strumento di sottomissione. In barba a qualsiasi norma di diritto internazionale.

 

Gli eventi degli anni successivi sono ben documentati ancora oggi nelle capitali degli stati baltici, della Polonia e dell’Est Europa più in generale, che non ha mai dimenticato gli orrori russi, e che oggi, con l’eccezione dell’Ungheria di Victor Orban, è in prima linea nell’Unione a portare avanti la linea dura contro la violenza russa. Decine di migliaia di oppositori torturati e uccisi, settemila solo a Smiersz, nella Polonia nordoccidentale, dove Ivan Sierov, crudele capo del Kgb, famoso per avere detto di potere rompere qualsiasi osso nel corpo di un uomo senza ucciderlo, si era intestato il compito di eradicare i partigiani. Sempre nel sangue è finita la rivoluzione ungherese del 1956 e poi quella del 1968 a Praga. E negli anni Ottanta l’invasione dell’Afghanistan, durante la quale furono uccisi un milione e mezzo di abitanti, quasi tutti civili, con uno dei gadget mortali preferiti allora, come oggi, il giocattolo imbottito di esplosivo.

 

Ma oggi, a differenza di allora, e anche a differenza di quanto successo in Cecenia o in Siria, dove né aggressore né aggredito erano soggetti alla giurisdizione della Corte penale internazionale, i crimini potranno essere puniti. Non tutti, certo. Perché il crimine di aggressione ha bisogno dell’avallo del Consiglio di sicurezza dell’Onu, in cui siede la Russia, e perché nessuno può essere processato in contumacia. Ma molti crimini di guerra e contro l’umanità lo potranno essere, a patto che sia dimostrata la relazione tra crimine e autore dello stesso.

 

«Lo sforzo deve essere tutto volto a reperire prove per attestare le responsabilità dirette», dice Mancini: «Non solo quelle di Putin, per punire il quale sarebbe necessario un cambio di regime, al momento improbabile. Ma tra lui e il soldato semplice c’è una catena. Vale il principio della responsabilità del comandante sia per gli atti criminosi impartiti sia per quelli commessi dai suoi sottoposti che il capo non ha impedito o non ha punito».

 

Dunque ben vengano la Commissione speciale d’inchiesta annunciata dalla Commissione europea, il portale warcrime.gov.ua istituito dalla procuratrice generale ucraina Irina Venediktova tramite cui i cittadini possono fornire informazioni sui crimini di guerra e anche il portale simile voluto sul suo sito dal Tribunale penale internazionale. Dall’inizio della guerra Venediktova ne ha contati oltre settemila di crimini, molti dei quali sono anche contro l’umanità, ovvero atti inumani commessi nell’ambito di un attacco sistematico contro la popolazione civile con un preciso disegno politico.

 

A dare indicazioni in questo senso è stata pochi giorni fa la stessa agenzia di stampa russa Ria Novosti, in quello che sembra un “Mein kampf” dei giorni nostri: «La maggioranza della popolazione ucraina è nazista e deve essere denazificata per cui è necessario eliminare chiunque abbia imbracciato le armi perché è responsabile del genocidio russo». E ancora: «Il nazismo è travestito dal desiderio d’indipendenza. Ma l’Ucraina non è uno stato nazionale e ogni tentativo di costruirlo porta al nazismo. L’Ucraina deve dunque essere cancellata. Le élite devono essere eliminate perché non rieducabili e la palude sociale che le sostiene deve subire la violenza della guerra per fare penitenza e ricevere una lezione storica». In altre parole o la resa o il massacro. Altra scelta dai russi non è data. A dispetto di ogni grido di pace.