Medio oriente in fiamme

Discriminati e arrestati senza motivo, i cittadini palestinesi di Israele non godono degli stessi diritti degli altri

di Elena Colonna da Haifa   14 giugno 2024

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Sono due milioni quelli che che vivono nello Stato ebraico, sotto un regime sempre di più di apartheid: «Dal 7 ottobre la repressione ha raggiunto il livello di persecuzione politica»

Duecentocinquanta persone protestano ad Haifa, nel Nord di Israele. È il 27 maggio, il giorno dopo la strage di Rafah, in cui un raid dell’esercito israeliano ha ucciso almeno 45 sfollati e ne ha feriti più di 180 in una zona che era stata designata come area umanitaria. I manifestanti agitano uno striscione su cui c’è scritto «Stop al massacro» e qualcuno alza una bandiera palestinese. Per la maggior parte sono cittadini palestinesi di Israele, parte della minoranza araba del Paese, ma ci sono anche alcuni attivisti ebrei. A un’ora dall’inizio della protesta, la polizia intima ai manifestanti di allontanarsi, poi irrompe a cavallo su di loro, caricando con violenza la folla, sequestrando i cartelli e arrestando nove persone.

 

Una delle persone arrestate è Rana Bishara, artista e attivista di 53 anni, cittadina palestinese di Israele. Rana è stata arrestata per aver alzato, durante la protesta, un cartello con la foto di Walid Daqqa, prigioniero palestinese morto di cancro ad aprile in un carcere israeliano, il cui corpo non è ancora stato restituito alla famiglia. «In quanto artista e attivista, è mio dovere protestare contro il genocidio che sta accadendo a Gaza», dice Rana, che incontriamo il giorno dopo la protesta, appena dopo essere stata rilasciata: ha una mano bendata, dove è stata colpita dalla polizia. «Appena ho alzato il cartello la polizia mi ha attaccato. Sono stati brutali», continua Rana che dopo essere stata portata in ospedale ha passato la notte in cella. «Trovarsi davanti a questo livello di ostilità, di violenza, di insulti e derisione, è stato scioccante», dice. L’attivista aggiunge che dall’inizio della guerra a Gaza la condizione dei cittadini palestinesi di Israele è «terribilmente peggiorata»: «Non siamo visti come esseri umani», dice e spiega che «tanti cittadini arabi di Israele sono spaventati, perché ci sono stati molti arresti negli ultimi mesi».

 

I cittadini palestinesi di Israele, detti anche i palestinesi del ’48, sono gli arabi che possiedono la cittadinanza israeliana: si tratta di circa due milioni di persone, discendenti dalla popolazione araba rimasta all’interno dello Stato di Israele durante la Nakba, l’espulsione della popolazione palestinese in concomitanza alla creazione di Israele nel 1948. Tra i cosiddetti palestinesi del ’48 ci sono musulmani, cristiani, drusi e comunità beduine, e a oggi corrispondono a circa il 20% della popolazione del Paese. Nonostante abbiano la cittadinanza israeliana e godano del diritto di voto, secondo molte associazioni per i diritti umani soffrono varie discriminazioni e, dall’attacco di Hamas contro i civili israeliani dello scorso 7 ottobre e l’invasione israeliana di Gaza, una pesante repressione.

 

«Non c’era alcuna base legale per l’arresto», dice Adi Mansour, uno degli avvocati che ha rappresentato Rana e le altre persone che sono state arrestate. Mansour spiega che, come emerge dal caso di Rana, arrestata per avere semplicemente esposto un cartello, «sono stati arrestati per il messaggio politico della protesta, che era contro la guerra a Gaza: è chiaramente un tentativo di prevenire ogni tipo di mobilizzazione e una violazione dei diritti civili». Mansour, che lavora in Adalah, un centro legale che difende i diritti della minoranza araba in Israele, spiega che «dopo il 7 ottobre abbiamo osservato una chiara repressione dei palestinesi cittadini di Israele, che a nostro avviso ha raggiunto il livello della persecuzione politica».

 

L’avvocato racconta che centinaia di cittadini palestinesi di Israele sono stati arrestati «per post o storie su Instagram», licenziati o sanzionati con procedure disciplinari all’interno delle università. «Questa mattina ho avuto l’udienza di una studentessa che ha postato la bandiera palestinese nella sua bio e che per questo è accusata di supporto al terrorismo». Secondo un sondaggio dell’Israel Democracy Institute, a dicembre scorso il 71% dei cittadini arabi di Israele erano preoccupati all’idea di esprimere la propria opinione sui social media e l’84% temeva per la propria incolumità fisica. Mansour spiega infatti che i cittadini palestinesi negli ultimi mesi hanno subìto anche attacchi violenti, minacce e molestie. Inoltre, per mesi, il governo israeliano non ha autorizzato mobilitazioni contro la guerra a Gaza.

 

Ma i palestinesi con cittadinanza israeliana sono sempre stati vittime di discriminazioni. Dal 1948, anno dell’istituzione dello Stato di Israele, e fino al 1966, i cittadini arabi sono stati sottoposti a un regime di legge marziale, con forti limitazioni alla libertà di movimento e di assemblea, misure che non si applicavano ai cittadini ebrei. Anche dopo l’abolizione della legge marziale, come spiega Amnesty International in un rapporto del 2022, i cittadini palestinesi di Israele continuano a essere soggetti a un sistema di oppressione e dominazione attraverso politiche discriminatorie che influiscono sul loro status giuridico, il loro accesso alla terra, alle risorse e ai servizi.

 

In particolare, il rapporto di Amnesty cita le restrizioni relative al ricongiungimento familiare e al diritto a estendere i diritti di soggiorno, e le pratiche che escludono i palestinesi dall’accesso e dal possesso della stragrande maggioranza dei terreni pubblici (che costituiscono il 90% del territorio di Israele). Come spiega l’organizzazione per i diritti umani israeliana B’Tselem, inoltre, sul 3% del territorio israeliano designato per le comunità di palestinesi, il governo limita i permessi di costruzione: i palestinesi sono quindi spesso costretti a costruire senza permessi abitazioni che poi vengono demolite. Nella regione del Negev, per esempio, il governo israeliano ha effettuato ripetute demolizioni di case e sgomberi forzati contro i palestinesi.

 

Come conseguenza di queste politiche, i palestinesi in Israele soffrono un’importante segregazione: circa il 90% di loro vive in città e villaggi abitati esclusivamente da palestinesi, e solo il 10% di loro nelle cosiddette città miste come Haifa e Acre. Cittadini arabi e cittadini ebrei frequentano scuole diverse. Inoltre, secondo i dati del 2023 dell’Istituto di Statistica israeliano, il 53% dei cittadini palestinesi di Israele è a rischio povertà, contro il 18% dei cittadini israeliani. Con l’adozione, nel 2018, della legge fondamentale sullo Stato-nazione, che definisce Israele come uno Stato-nazione ebraico nei cui confini il diritto all’autodeterminazione è esclusiva della popolazione ebrea, questa discriminazione sistemica è diventata esplicita. Per varie organizzazioni, tra cui Amnesty International, B’Tselem e Human Rights Watch, la discriminazione contro i cittadini palestinesi di Israele corrisponderebbe, nei fatti, a un sistema di apartheid.

 

Mentre in Israele il dissenso contro la guerra viene represso, e si aspetta l’esito del negoziato rispetto all’ennesima proposta per una tregua, questa volta presentata dal presidente americano Joe Biden, che porterebbe a sei settimane di cessate il fuoco e al rilascio di molti degli ostaggi, la situazione a Gaza diventa sempre più drammatica. Nonostante lo scorso 24 maggio la Corte di Giustizia internazionale abbia ordinato la fine dell’offensiva israeliana su Gaza in una sentenza storica, l’esercito israeliano ha continuato ad avanzare su Rafah. Dopo il raid israeliano sulla tendopoli di Tal as-Sultan di domenica scorsa, che ha sollevato forti condanne internazionali, sono continuati bombardamenti e incursioni su terra anche nelle zone designate come sicure, dove si sono rifugiate migliaia di profughi dal resto della Striscia.