Medio Oriente in fiamme

Israele utilizza l'Ia per bombardare Gaza: a pagarne il conto sono le vittime

di Tommaso Grossi e Giulia Torchio   2 luglio 2024

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Con la trasformazione del conflitto in una guerra tecnologica, aumenta il numero di vittime e la distruzione disseminata. "Grazie" a un'industria finanziata anche dall’Europa

"La macchina che vinse la guerra” è un racconto fantascientifico di Isaac Asimov, pubblicato nel 1961. I protagonisti del racconto sono generali dell’esercito che ammettono di avere falsificato alcuni dati raccolti per permettere al potente e crudele computer Multivac di prendere le decisioni necessarie a vincere la guerra contro gli abitanti di Deneb. A poco più di sessanta anni dall’uscita del libro, tali macchine non fanno più parte dell’immaginario fantascientifico collettivo.

 

Secondo quanto riportato da diverse fonti di intelligence, le forze armate israeliane (Idf) hanno adottato diversi programmi di intelligenza artificiale (Ia), per pianificare ed eseguire bombardamenti su Gaza. Tra questi, il sistema noto come “Lavender” è uno dei pilastri dell’operazione “Swords of Iron”, che il governo di Benjamin Netanyahu ha lanciato per rispondere agli attacchi di Hamas del 7 ottobre 2023.

 

I primi esperimenti con sistemi militari avanzati risalgono però a ben prima. Come riportato da Aviv Kochavi, ex capo dell’Idf, Israele ha iniziato a servirsi di macchine intelligenti durante la crisi israelo-palestinese del 2021, quando ha introdotto il sistema “Hasbora” (in italiano, vangelo). Negli anni si sono poi aggiunte “Lavender” e “Where is Daddy?”, grazie alle quali ora Israele è in grado di analizzare, classificare, individuare e colpire presunti affiliati di Hamas e della Jihad islamica palestinese in tempi considerevolmente più brevi di quelli precedentemente impiegati dagli analisti militari.

 

Analogamente al racconto di Asimov, la supervisione umana riservata a controllare e approvare gli attacchi è minima. Secondo quanto riportato da fonti interne, i militari israeliani dedicano in media venti secondi a bersaglio, giusto il tempo di accertarsi che si tratti di un uomo, prima di autorizzare l’attacco. Ciò è incredibilmente preoccupante, se si tiene a mente che queste macchine “intelligenti” hanno un tasso di errore del 10% e che spesso identificano bersagli unicamente sulla base di ipotetiche connessioni al gruppo di Hamas, come ad esempio l’essere parte di un gruppo WhatsApp comune.

 

Con la trasformazione del conflitto in una vera e propria guerra tecnologica, aumenta significativamente anche il numero di vittime e la distruzione disseminata su Gaza. Dall’introduzione di questi sistemi, circa trentasettemila sospettati sono stati segnalati dalle macchine, mentre il numero delle vittime riportate ha superato di quindici volte quello della crisi del 2014, fino a ora considerata la più fatale.

 

Ma il crescente bilancio delle vittime è anche da attribuire a un cambiamento nella natura dei target colpiti da Israele. Questi non includono più unicamente luoghi di natura militare, come invece previsto dal diritto internazionale, ma comprendono anche «power targets» quali ospedali e campi di rifugiati, come visto nella più recente offensiva su Rafah. A ciò si combina il progressivo utilizzo di «dumb bombs» in favore di quelle di precisione e l’impiego di bombardamenti a tappeto.

 

Questo uso di violenza eccessiva si rifà a una tattica militare chiamata «dottrina Dahiya», che prende il nome dal conflitto tra Israele e Libano nel 2006. I pilastri di questa strategia sono l’impiego di forza sproporzionata, spesso sotto forma di punizione collettiva, e la distruzione di infrastrutture civili. L’obiettivo, invece, è duplice: neutralizzare Hamas e diminuire il supporto tra la popolazione per scoraggiare future insurrezioni.

 

Un fattore rilevante per il successo di questa strategia è la superiorità tecnologica di Israele, supportata da un settore industriale competitivo e coadiuvata dagli ingenti investimenti di alleati occidentali. Difatti, sebbene l’articolo 41 dei Trattati europei vieti l’utilizzo del budget per finanziare programmi per lo sviluppo di sistemi militari, l’Europa fa un’eccezione per Israele.

 

Nello specifico, tra il 2014 e il 2020, il programma “Horizon 2020” ha finanziato oltre duecento enti di ricerca israeliani per un totale di 1,28 miliardi di euro. È il caso di compagnie belliche come Elbit, che produce droni, fosforo bianco e bombe (tra cui si sospetta anche quelle a grappolo), e Israel Aerospace Industries, che fabbrica i droni che presidiano lo spazio aereo su Gaza.

 

Ma l’Europa finanzia anche progetti che sviluppano «dual use technologies», ovvero tecnologie che possono essere utilizzate per scopi sia militari sia civili. Tra queste figurano Autofly, che usa algoritmi per automatizzare il volo dei droni e permettere loro di fare ricognizioni anche in caso di mancanza di comunicazioni radio, e Ver.Ai, che utilizza l’Ia per contrastare le fake news e la radicalizzazione sui social media.

 

Questi investimenti hanno fatto sorgere domande in merito al doppio standard adottato dall’Europa. Nel 2021, mentre l’Ue dibatteva una proposta di legge per regolare l’utilizzo dell’Ia in Europa, per imporre limiti all’uso dei sistemi di identificazione biometrica da parte delle forze dell’ordine e ai sistemi di credito sociale, Israele introduceva macchine intelligenti nel suo arsenale militare e beneficiava di un rinnovo dei fondi “Horizon” per il periodo 2021-2027.

 

Sebbene i finanziamenti all’industria bellica israeliana siano stati oggetto di una recente inchiesta parlamentare e di un’onda di proteste tra gli accademici, i quali hanno chiesto all’Ue di cessare gli investimenti, gli sviluppi concreti sono stati pochi e deludenti. Se da un lato l’Occidente ha fatto alcuni passi in avanti nel regolamentare l’Ia – ma le sue applicazioni, soprattutto nel mondo del lavoro, lasciano aperti molti interrogativi – dall’altro il suo coinvolgimento nell’industria bellica israeliana non può più essere ignorato.