La procuratrice generale dell’Ecuador è giovane, popolare e determinata. La sua ricetta: «I trafficanti si possono sconfiggere solo collaborando a livello internazionale»

Il suo è stato definito «il mestiere più pericoloso dell’emisfero occidentale». È giovane, è donna, è madre. Ma soprattutto è una magistrata che non guarda in faccia nessuno. Questo aumenta la sua popolarità, in patria e all’estero, tanto che Time la considera una delle cento persone più influenti del pianeta. E moltiplica i suoi nemici, che sono tra i più agguerriti di tutti: spietati nell’usare la violenza e abili nel distillare delegittimazione. Diana Salazar Méndez è la procuratrice generale dell’Ecuador, l’ultima nazione devastata dalla ferocia dei trafficanti di cocaina. Nel 2023 hanno ucciso quasi ottomila volte: persino il candidato alla presidenza del Paese, Fernando Villavicencio, è stato ammazzato subito dopo un comizio in cui aveva ribadito la volontà di combattere droga e corruzione. Poi hanno occupato a mano armata gli studi di una televisione, interrompendo un programma e concretizzando in diretta l’onnipotenza delle gang. Diana Salazar Méndez è stata nominata alla guida della magistratura inquirente il primo aprile 2019, quando aveva 38 anni e tutti sapevano che non si trattava di uno scherzo: aveva già incriminato il numero uno della Federazione Calcistica nazionale per la corruzione al vertice della Fifa e il vicepresidente della Repubblica per le tangenti del colosso brasiliano delle infrastrutture Odebrecht. Dopo l’insediamento, ha preso di mira il cuore del nuovo potere criminale: la narcopolitica, ossia l’intreccio tra boss e partiti, potere infiltrato persino tra giudici e polizia. Un vero cancro: non a caso, la retata che ha scatenato l’anno scorso è stata chiamata Metastasi. Adesso è in attesa del secondo figlio e anche questa gravidanza è stata sfruttata per attaccarla dall’interno delle istituzioni. Ma lei non si arrende e va avanti a testa alta: «È ora di dire a tutto l’Ecuador che la Giustizia non si inginocchierà».  

 

L’assassinio del candidato presidenziale Villavicencio ha portato all’attenzione del mondo la violenza della criminalità organizzata in Ecuador. Si parla spesso dei narcos in Colombia, Messico e Perù, ma nessuno si era reso conto che fossero diventati così aggressivi nel vostro Paese: avevate registrato segnali dell’escalation?
«L’omicidio di Fernando Villavicencio, come lei giustamente dice, ha portato all’attenzione del mondo quello che stava accadendo e avviene ogni giorno nel mio Paese. Noi ecuadoriani però lo stiamo vivendo da diversi anni, con una crescita che è aumentata continuamente. Il lavoro che ho svolto come procuratrice generale durante questa amministrazione mi porta a dire che gli indizi dell’escalation erano evidenti. I colpi che abbiamo sferrato ai narcos assieme alla Polizia nazionale hanno dimostrato che non si trattava di casi isolati. Per questo abbiamo cercato di scavare con più attenzione e di individuare la testa: non solo di queste strutture criminali, ma anche tentando di svelare con le inchieste qualcos’altro che potesse essere ancora più profondo. Questo ci ha portato, ad esempio, all’operazione Metastasi: un’indagine che ha messo in luce come non si tratti solamente di gruppi violenti. Dietro questa escalation criminale c’è l’infiltrazione nello Stato, nelle sue istituzioni più sensibili, in molte delle sue autorità: un cancro che non si è sviluppato improvvisamente in due o tre anni, ma che andava avanti da molto tempo. Ecco perché queste gang della criminalità organizzata si sono rafforzate così tanto: c’erano delle indicazioni, ma non ci aspettavamo che la situazione fosse così grave come le indagini stanno rivelando. Ora possiamo parlarne con certezza».

 

Blitz delle forze dell’ordine in un covo di narcos a Guayaquil

 

Lo scorso gennaio avete sequestrato oltre ventuno tonnellate di cocaina in un’unica operazione: un carico colossale. Quanto è cresciuto il traffico di droga in Ecuador e perché?
«Il traffico di cocaina, come tutti i fenomeni sociali e criminali contemporanei, non ha limiti geografici. L’Ecuador si trova tra due Paesi produttori di cocaina, la Colombia e il Perù, e assistiamo purtroppo al continuo aumento della quantità di droga che transita nel nostro territorio. Questo boom dipende dalla forte incidenza dei gruppi criminali coinvolti nel trasferimento, nel trasporto e nello stoccaggio di stupefacenti, ma anche dall’assenza di politiche più aggressive e di lungo periodo da parte dello Stato. A questo si aggiunge la facilità di accesso ai porti e alle zone costiere, che diventa una delle cause fondamentali dell’aumento del traffico di droga. Anche se esistono statistiche raccolte da diverse istituzioni, non è possibile determinare l’esatto livello di crescita, ma possiamo dire che è esponenziale e allarmante perché l’Ecuador ha smesso da anni di essere solo un Paese di transito: oggi è un luogo di raccolta, distribuzione, esportazione e persino di consumo».

 

Le tonnellate di cocaina che lasciano l’Ecuador sono dirette principalmente in Europa: secondo il ministero dell’Interno in Italia nel 2022 la droga proveniente dal vostro Paese è aumentata del 67 per cento. Ma la cooperazione giudiziaria con le autorità della Ue funziona?
«La criminalità organizzata transnazionale è rafforzata dalla facilità che offre il mondo globalizzato e tecnologizzato in cui viviamo. È diventato il grande vantaggio per i narcos, che non seguono alcuna regola o procedura oltre a quelle che si impongono da soli. L’Europa è una delle principali destinazioni della droga che lascia l’Ecuador, perché i risultati delle indagini dimostrano che lì si pagano prezzi migliori per le sostanze narcotiche. Da qui l’importanza della cooperazione internazionale. Il coordinamento dei Paesi sudamericani con quelli europei ha permesso un importante scambio di informazioni di intelligence tra le unità di polizia e tra i pubblici ministeri dei due continenti. Inoltre, istituzioni come Eurojust (il coordinamento giudiziario europeo, ndr) hanno fornito i mezzi e il supporto logistico necessari per condurre operazioni coordinate, scaturite in sequestri di stupefacenti molto importanti e nell’arresto dei leader di gruppi criminali internazionali. Cito come esempio il caso Pampa: in coordinamento con le autorità spagnole, abbiamo sferrato un colpo alla mafia albanese che trafficava droga, facendo scattare operazioni simultanee in entrambi i Paesi».

 

Quale aiuto chiede alla comunità internazionale per sconfiggere i narcos?
«È necessaria un’azione coordinata e comune. In altre parole, le informazioni raccolte nei porti di arrivo delle droghe in Europa, Nord America e America Centrale, che sono le principali destinazioni, dovrebbero essere trasmesse al Paese da cui vengono spedite. In Ecuador abbiamo bisogno che la polizia e la Procura ricevano tempestivamente i dati sui sequestri in modo da potere aprire le indagini sui clan che hanno gestito il trasferimento della droga. È inoltre fondamentale condividere le informazioni di intelligence e quelle sui sistemi di comunicazione criptati usati dai narcos, che in diversi casi in Europa sono state decifrate. Oggi è essenziale disporre di un supporto tecnologico per lo sviluppo di apparecchiature capaci di penetrare le reti telefoniche criptate, introducendo sistemi sperimentati e affidabili condivisi dalle agenzie investigative. Devo riconoscere che l’Europa è interessata a sostenere l’Ecuador. Per esempio, abbiamo ricevuto un contributo significativo dall’Italia, attraverso Eurojust: ci hanno aiutato nella traduzione di documenti, fornito le risorse per creare una piattaforma di comunicazione sicura e per il trasferimento degli investigatori da un Paese all’altro».

 

 

La quantità di cocaina che sequestrate testimonia anche la ricchezza dei clan. I capitali dei narcotrafficanti ecuadoriani sono investiti in patria o riciclati all’estero?
«Gran parte di questi capitali vengono investiti nelle economie di altri Paesi. Recentemente sono stati rilevati capitali investiti in Europa: ad esempio l’organizzazione legata agli albanesi, smascherata nell’operazione Pampa, riciclava il proprio denaro in Spagna. È un altro aspetto che sottolinea l’importanza della collaborazione internazionale: sono state aperte indagini per riciclaggio sia in Spagna sia in Ecuador, dove siamo riusciti a sequestrare alcuni beni. È un modello che deve essere replicato in altre nazioni».

 

Quale pensa sia la strategia per sconfiggere il traffico internazionale di cocaina?
«La strategia è un coordinamento innovativo tra agenzie investigative diverse e nazioni diverse. Bisogna costruire un sistema di indagine con scambio di informazioni in tempo reale che metta insieme gli inquirenti del Paese di produzione, di quelli di spedizione, transito e consumo. Chiudendo queste quattro categorie di Paesi in un unico circuito investigativo possiamo attaccare le strutture operative e le reti finanziarie dei narcos ovunque. Un punto di partenza può essere il progetto Empact, l’iniziativa creata dall’Ue per contrastare le grandi minacce criminali, che dallo scorso anno sostiene anche l’Ecuador: a inizio luglio ci sarà una riunione a Buenos Aires. Sarebbe importante in questa sede approfondire le strategie di indagine con la Spagna, l’Italia, l’Olanda, la Germania, il Belgio, proprio perché sono i principali destinatari del traffico di cocaina. Solo se riusciremo ad agire insieme saremo in grado di sconfiggere il potere dei narcos».