Elezioni
Il Venezuela si prepara al voto. E nessuno ha idea di come andrà a finire
Nicolás Maduro punta al terzo mandato ma è indietro nei sondaggi. E tutti si chiedono se in caso di sconfitta la transizione sarà pacifica
C'è una sola certezza: si vota il 28 luglio. Il resto è buio. Molti dubbi e tanto scetticismo. Per le trappole disseminate lungo il percorso, i colpi di scena sempre in agguato, le giravolte possibili del regime che teme di perdere il potere. Dopo 25 anni di dominio assoluto. Non esistono garanzie. Per vinti e per vincitori. In questo vuoto di prospettive, tutte appese all’imprevedibilità, il Venezuela si prepara alle elezioni più importanti della sua storia. Si sceglie il nuovo presidente che guiderà il Paese fino al 2031.
Da un lato c’è Nicolás Maduro, 62 anni, ex dirigente sindacale dei lavoratori della metropolitana, per due volte capo di Stato, fervido militante del Psuv, il Partito Socialista Unito del Venezuela, che punta al rinnovo per un terzo mandato consecutivo. Dall’altro Edmundo González Urrutia, 74 anni, estraneo all’agone politico, un intellettuale con una carriera da ambasciatore, abile mediatore ma schivo ai riflettori della notorietà.
Due opposti, entrambi decisi a vincere. Se Maduro, già delfino di Hugo Chávez che lo nominò suo successore poco prima di morire (2013), incarna l’ala più radicale della Rivoluzione bolivariana, Urrutia è la soluzione di compromesso che la Mud, la Mesa de Unidad Democrática, coalizione di tutti i partiti dell’opposizione, è riuscita a imporre dopo i ripetuti ostacoli frapposti dalla maggioranza. Ha sostituito in corsa Maria Corina Machado, 57 anni, già deputata dell’Assemblea nazionale, leader del partito Vente Venezuela, considerata la Thatcher dei Caraibi per le sue posizioni di destra simili alla Lady di ferro britannica sebbene si dichiari una «liberal anticomunista».
Da sempre in politica, con un record di voti alle Legislative del 2011, questa ingegnera e attivista dei diritti umani, accusata di velleità golpiste dai suoi detrattori, ha vinto con il 95 per cento delle preferenze le primarie che l’opposizione ha organizzato a fine ottobre del 2023. Era destinata a correre per le Presidenziali. Ma sette mesi dopo, il 30 maggio di quest’anno, è stata bloccata da una sentenza amministrativa apparsa chiaramente strumentale: non ha dichiarato al fisco vecchie entrate. Rappresentava un pericolo per il regime: il Controllore generale della Repubblica, l’ente che vigila sulle finanze pubbliche, l’ha disabilitata da ogni incarico pubblico per 15 anni.
Proteste e condanne. Ma l’esclusione è rimasta e Maria Corina ha dovuto trovare una soluzione che non spegnesse l’entusiasmo di quei 4 milioni di venezuelani che l’avevano indicata alle primarie e mantenesse unita un’opposizione spesso rissosa e divisa. Ci è riuscita con un gioco di prestigio, il solo modo di superare le alchimie di un regime che s’inventava tutto pur di allontanare lo spettro di una sconfitta. Le pressioni Usa, che da sei mesi hanno tolto le pesanti sanzioni e consentito a Maduro di vendere di nuovo sui mercati gas, petrolio e oro, hanno pesato sull’esito finale di questa prova di forza. Dopo aver escluso anche una seconda candidata, Corina Yoris, filosofa e nota tifosa del Real Madrid, il Consiglio nazionale elettorale controllato da Maduro ha deciso di accogliere quella del diplomatico imprestato alla politica. Candidato suo malgrado. Edmundo González Urrutia non lo aveva chiesto e neanche lo sospettava. Ma è stata una mossa azzeccata. In un solo mese il discreto ex ambasciatore ha conquistato i cuori della maggioranza dei venezuelani. I sondaggi gli attribuiscono un vantaggio di 20 punti sull’eterno presidente: Maduro resta ancorato al 35 per cento delle intenzioni di voto, González spicca al 56.
Maria Corina Machado è il fenomeno politico di queste elezioni. Ricorda, secondo molti osservatori, il carisma che solo ex presidenti come Carlos Andrés Pérez (1974) e Hugo Chávez (1998) hanno espresso in passato. I dati dei sondaggi vengono smentiti, senza annullarli, dal governo bolivariano. Maria Elena Uzzo, incaricata di affari dell’ambasciata del Venezuela in Italia e capo provvisorio della delegazione, sorride amabile quando le ricordiamo il quadro offerto da varie rilevazioni. «A noi risulta che entrambi i candidati siano alla pari», ribatte, «il presidente è sceso in mezzo alla gente e questo piace. S’impegna in prima persona nella campagna. Parla, chiede, si informa. La situazione in Venezuela è molto cambiata negli ultimi mesi. La violenza si è attenuata, è possibile camminare per strade e quartieri da sempre sconsigliati. Non lo dico solo per una difesa d’ufficio del governo che rappresento. È una realtà che chiunque può notare sul posto. C’è un grande desiderio di cambiamento e questo ci impegna verso la vittoria. Noi difendiamo la democrazia. Il voto deciderà chi governerà il Paese nei prossimi anni. E chiunque sarà dovrà farlo rispettando gli avversari e la volontà popolare».
Ma è forse questo il punto centrale di un’elezione che, fino all’ultimo, è una incognita. Cosa accadrà il giorno dopo? Come si comporteranno vinti e vincitori nei sei mesi che separano l’esito della consultazione dall’insediamento del nuovo presidente il 10 gennaio del 2025? Domande senza risposta. Nessuno, tra maggioranza e opposizione, si avventura su scenari che potrebbero spezzare un sentimento collettivo, il più diffuso tra i 28,3 milioni di venezuelani: imprimere il cambio a un Paese scivolato in un buco nero. Che ha attirato e costruito le fortune di intere generazioni di immigrati da tutto il mondo, soprattutto italiani, ma costretto alla fuga 7,5 milioni di persone (ridotti a 2,3 dal governo che parla di rimpatri massicci e ritorni spontanei) nella più grande diaspora del nuovo secolo. Un cambio basato su un voto libero, trasparente, senza frodi e falsi risultati. Non ci saranno osservatori internazionali. Solo quelli del Centro Carter, gli emissari della Ue sono stati prima invitati e poi esclusi per aver votato il rinnovo delle sanzioni.
Il gruppo dirigente del governo, dal presidente del Psuv Diosdado Cabello al presidente dell’Assemblea nazionale Jorge Rodríguez, fedelissimi di Maduro, ha mobilitato l’intero apparato comunicativo e organizzativo del regime. Segue da vicino la campagna della Machado e di González, li tallona, propone i comizi negli stessi posti, li attacca e li avverte con velate minacce. C’è chi spinge per una mossa che possa mettere fuori gioco gli avversari, varando all’ultimo un provvedimento che annulli la candidatura dell’anziano diplomatico; c’è invece chi guarda agli Usa come garanti di un salvacondotto in caso di sconfitta. «Voglio essere fiducioso, ma sono anche molto preoccupato per una situazione fragile e incerta fino alla fine», commenta con L’Espresso Pier Ferdinando Casini che dal 2013 e il 2017 come presidente della commissione Esteri della Camera ha seguito da vicino la crisi del Venezuela aiutando due deputati dell’Assemblea nazionale a riparare in Italia dopo essere rimasti sette mesi chiusi nella nostra ambasciata a Caracas. «Se vincerà l’opposizione», aggiunge, «bisogna che la transizione sia pacifica e che vengano date delle garanzie anche a chi perde. Siamo davanti a una grande sfida. Se è vero che chi prevale ha anche la forza di imporre il suo programma politico è anche vero che il regime lotta per la sua sopravvivenza. Non ha vie di fuga. Il rischio del revanscismo e della vendetta è molto forte. Ma senza precise garanzie per entrambi i contendenti la transizione rischia di non essere pacifica».
L’ex alto dirigente della Democrazia Cristiana e attuale senatore Pd crede che il Brasile e la Colombia possano avere un ruolo importante di mediatori nella fase del dopo voto. «Sono Paesi con governi di sinistra che hanno sempre avuto difficoltà a prendere le distanze dal Maduro», ragiona. «Ma proprio per questo hanno un peso specifico nella regione. Possono essere i negoziatori più credibili e in parte già lo sono. Non condividono le posizioni di Maria Corina Machado ma hanno tutto l’interesse a un passaggio incruento». Lula e Petro hanno già pronto un documento che vogliono presentare a Maduro. Niente vendette e ritorsioni. Il governo esclude ogni intervento autoritario ma avverte gli avversari che reagirà se ci fossero spinte verso un colpo di mano. «Esiste un accordo che riconosce entrambi gli schieramenti e che obbliga al rispetto della volontà espressa dal popolo venezuelano», ricorda l’ambasciatrice in Italia Maria Elena Uzzo mostrandoci lo scritto in nove punti. «È stato firmato da tutti il 20 giugno scorso, tranne che dal candidato González». Mariella Magallanes, deputata dell’Assemblea nazionale oggi in esilio a Milano, conferma l’intesa. Ma non l’ultima sottoscritta. «L’unica riconosciuta a livello internazionale e la prima tra governo e opposizione», chiarisce, «è stata raggiunta il 17 ottobre 2023 a Barbados. Impegnava al rispetto di elezioni libere, garantiva la partecipazione di tutti i candidati. È stata disattesa dai nostri avversari che adesso ne propongono un’altra. È il solito giochetto a cui non ci prestiamo. Ci obbligano a seguire l’agenda del regime».
La strategia, secondo la parlamentare, era dividere l’opposizione ed evitare che i venezuelani avessero fiducia nelle urne. «Puntano sull’astensione», aggiunge Magallanes, «perché temono la sconfitta. È un ordine esecutivo. Non serve sottoscrivere qualcosa che è già stato stabilito. Nessuna questione di principio ma di rispetto delle regole».
Maria Magallanes evita previsioni. Quantomeno per scaramanzia. Ma ha idee chiare sul futuro. «Ci stiamo preparando a vincere», assicura al nostro giornale. «Vogliamo far votare anche i venezuelani che si sono iscritti nei consolati all’estero e i tre milioni delle primarie. Ma vogliamo che lo facciano nei loro seggi, senza altri ostacoli, obblighi impossibili, sotterfugi». Cosa accadrà? Maria Magallanes sospira: «Non ci cono opzioni. Per sei mesi, fino al 10 gennaio prossimo, vinti e vincitori si dovranno sedere a un tavolo in una nuova fase di negoziati. La transizione deve essere pacifica. Non possiamo essere noi dell’opposizione a fornire delle garanzie. Dovrebbe essere il contrario. Il potere lo hanno loro. Un processo completo implica la partecipazione di tutti gli attori. Il Venezuela va ricostruito insieme».