Elezioni Usa

Non basta "Harris for president". Serve un vice che convinca gli indecisi per determinare la rimonta dem

di Manuela Cavalieri e Donatella Mulvoni   29 luglio 2024

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Dopo l'addio di Biden, i portafogli di finanziatori si sono riaperti. Ma per attrarre gli elettori è fondamentale la scelta del numero due alla Casa Bianca Non solo Kamala Harris ma il vice designato determinerà l’eventuale rimonta dei dem. Che intanto, dopo l’addio di Biden, scongiurano la fine dell’embargo dei finanziamenti

Quando nel 1972 Joe Biden, councilman del Delaware non ancora trentenne, tentava il salto in lungo verso il Congresso, c’era una frase che ricorreva nei suoi spot elettorali: «He understands what’s happening today». L’ambizioso giovanotto, che rapiva la stampa con i «brillanti occhi blu», era in grado di leggere il segno dei tempi. Non come il “vecchio” Cale Boggs, il repubblicano sessantatreenne, a cui avrebbe sfilato la poltrona di senatore. Cinquantadue anni dopo, nella canicola domenicale della baia di Rehoboth Beach nella casa di vacanza, guardandosi allo specchio Biden si accorgeva all’improvviso di aver perso il «guizzo degli occhi», quello che da ragazzo aveva rubato dallo sguardo stanco di Boggs. E così, con un post su X, rinunciava alla corsa per il secondo mandato alla Casa Bianca e ammetteva che stavolta no, non era riuscito ad afferrare da solo cosa stesse succedendo intorno a lui.

 

Per capire quale fosse il bene del Paese e cosa volesse la base, stavolta sono stati necessari settimane di umiliazioni pubbliche e private, colleghi ed editorialisti amici a implorarlo di passare la mano. Per non parlare dei sondaggi mortificanti e delle donazioni congelate. Mai nella storia un candidato aveva lasciato a un mese dalla convention. «Purtroppo, il partito non avrebbe potuto gestire diversamente la situazione. È stato un processo inevitabile. Biden ha fatto la cosa giusta da patriota qual è». Donna Shalala lo conosce bene. Appartiene allo stesso vivaio della vecchia guardia dem e ci ha lavorato gomito a gomito quando lui era senatore e lei ministra della Salute durante l’amministrazione Clinton. «Il partito è lento nelle decisioni – dice ancora a L’Espresso – ma una volta a bordo, si stringe al nuovo candidato con entusiasmo». L’attuale vicepresidente Kamala Harris, appunto. Per la formalizzazione della sua nomination non bisognerà aspettare il congresso democratico che si inaugurerà il prossimo 19 agosto a Chicago. Shalala conosce ogni ingranaggio della convention, vi parteciperà come membro della commissione che decide chi sono i delegati. «Riceverà la nomina prima, già all’inizio di agosto, si voterà telefonicamente. Ha già tutti i voti necessari, la convention sarà puro divertimento».

 

Intanto quella che era la campagna elettorale di Biden è già diventata Harris for President. «Kamala è eccellente, un’ottima candidata. Rappresenta la nuova generazione», afferma l’ex ministra. «Ha maturato anche molta esperienza internazionale perché il presidente si è assicurato che la acquisisse in questi anni. Ne saranno entusiasti tutti nel partito, ma anche gli indipendenti. Lo saranno soprattutto le donne». Specialmente quando vedranno in lei l’unica in grado di proteggere il diritto all’aborto, storpiato nel 2022 dalla Corte Suprema con l’annullamento della sentenza Roe v. Wade.

 

Nonostante lo scetticismo di molti, dovuto soprattutto al basso indice di popolarità, Harris è comunque la scelta naturale per garantire continuità al mandato di Biden. Anche quella più comoda, non solo per il bagaglio di esperienze, ma anche per l’accesso diretto alle donazioni già versate alla campagna elettorale del presidente. Un gruzzolo di circa 95 milioni di dollari che però aveva iniziato a stagnare dopo il “disastroso” dibattito del 27 giugno.

 

I portafogli di molti grandi finanziatori si erano chiusi, come pure erano diminuiti i versamenti dei piccoli donatori. Da qui, l’inizio di tre settimane di guerra civile. Sotterraneo prima, il malcontento aveva cominciato a manifestarsi con leak di «fonti anonime»; più tardi, si era condensato con nomi e cognomi. A chiedere di mollare, i quadri dem più vicini a Nancy Pelosi e la stessa speaker emerita della Camera, influente regista della capitolazione. Ultimo, l’appello del grande amico, Barack Obama.

 

L’agonia si scioglie nello storico tweet della resa. Mezz’ora dopo, il cinguettio che annuncia l’appoggio a Harris compie il miracolo: sui dem cade copiosa una pioggia di dollari. Quasi immediatamente Hollywood – il bancomat del partito – mette fine al “dembargo”. Produttori, cantanti, attori salutano la nuova candidata con generose donazioni. E con loro anche le compagnie della Silicon Valley, da sempre a lei vicina, e i miliardari di Wall Street. Per dare solo un’idea dell’entusiasmo generato, nelle 24 ore successive sono stati presi impegni per donazioni pari a 150 milioni di dollari, mentre è stata incassata la cifra record di 81 milioni.

 

Quella che fino a ieri sembrava una scelta improbabile, oggi entusiasma la sinistra americana. Kamala Devi Harris compirà sessant’anni a ottobre; figlia di immigrati, nata in California da papà accademico giamaicano e mamma scienziata indiana, entrambi impegnati nel Movimento per i diritti civili. È la donna dei record: prima procuratrice generale donna e nera della California; prima senatrice indiano-americana della nazione; prima donna vicepresidente e prima persona nera o asiatica a ricoprire la carica. Prossimo obiettivo, diventare la prima donna alla scrivania dello Studio Ovale.

I detrattori non le perdonano la determinazione con cui ha inseguito le sue ambizioni. In aggiunta, in questi tre anni e mezzo ha pagato il prezzo delle mission impossible affidatele da Biden, su tutte il dossier immigrazione.

 

Gli entusiasti ne apprezzano le doti comunicative e il carisma. D’altra parte, riuscì a sedurre anche Donald Trump, che sponsorizzò la sua campagna californiana nel 2011 e nel 2013. L’ex presidente – archiviati i richiami all’unità seguiti al fallito attentato – non perde occasione per insultarla ferocemente. Come stanno facendo anche il candidato vicepresidente populista  J.D. Vance e la macchina da guerra del Gop che ha già sfornato spot al vetriolo.

Per Matt Krayton, fondatore di Publitics e stratega politico, la veemenza degli attacchi è sintomo di timori. «Harris è una minaccia, sanno che può cambiare la narrativa», dice. «Porterà avanti l’eredità di questa presidenza straordinariamente produttiva finora». Un tesoretto politico che conta su un indice di disoccupazione ai minimi storici, sulla prima importante legge sul controllo delle armi in 30 anni, sull’abbassamento del costo dei farmaci, sul più grande investimento green, sul riposizionamento dell’America nello scacchiere mondiale, sul rinvigorimento della Nato.

 

Al momento, i sondaggi non restituiscono un quadro univoco, si tratta di «acque incerte». Per convincere gli elettori bianchi e la classe media negli Stati in bilico, fondamentale sarà la scelta del numero due. Tra i più gettonati, i governatori Josh Shapiro (Pennsylvania), Andy Beshear (Kentucky), Roy Cooper (Carolina del Nord). Ma non mancano le variazioni come il ministro dei trasporti Pete Buttigieg e il senatore astronauta dell’Arizona Mark Kelly.

 

Se nei mesi futuri Harris indosserà molto più spesso il cappello di candidata piuttosto che quello di vicepresidente, Joe Biden ha intenzione di essere un commander-in-chief attivo e di usare il tempo che gli resta per sigillare la sua eredità. Nonostante sia di fatto «un’anatra zoppa», lui stesso ha detto di voler «assolvere a tutte le funzioni sia in politica estera sia interna». Sarà sua premura aiutare la corsa della vice. «Lavorerò per ridurre i costi della vita per le famiglie», ha assicurato. Ma è il capitolo esteri a essere pressante con due guerre in corso. Biden serba la speranza di poter essere promotore di un cessate il fuoco a Gaza, mentre sul versante ucraino cercherà di assicurare il pacchetto di aiuti miliardari a Kiev. Più lui farà bene in questo ultimo miglio, più la candidata ne beneficerà.

 

C’è un precedente, quello di un altro presidente a cui tutti oggi lo accostano: Lyndon Johnson, che nel marzo del ’68, schiacciato dalle proteste contro la guerra in Vietnam, decise di non ricandidarsi. Nel giro di poche ore dall’annuncio, il suo livello di popolarità, fino ad allora bassissimo, impennò. Lo stesso potrebbe succedere a Biden e in fondo sta già avvenendo. Con le agiografie degli stessi colleghi che fino al giorno prima lo consideravano un peso. Inizia così a stracciarsi la pagina di storia che molti avevano iniziato a scrivere sul vecchio gaffeur, debole e sfibrato; al suo posto un’altra più onesta che rende merito a oltre mezzo secolo di carriera politica e racconta i quattro anni di quello che in tanti oggi definiscono pubblicamente «uno dei presidenti più importanti della storia americana».