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15 ottobre, 2025Dal 6 agosto, il Tribunale di Roma ha stabilito che il nostro Paese deve garantire l’ingresso in Italia, per motivi umanitari e familiari, a 43 persone sotto le bombe
«Ci sono volte in cui al telefono mio marito non risponde per giorni e l’ansia diventa insostenibile. Passo ore, quotidianamente, a controllare le liste dei morti sperando di non trovare il suo nome», racconta Maria Pia Montemitro, una dei sei cittadini italiani in attesa di ricongiungersi con i propri familiari palestinesi che si trovano nella Striscia di Gaza. Dal 6 agosto, il Tribunale di Roma ha stabilito con dieci pronunce che lo Stato italiano deve attivarsi nell’immediato per garantire l’ingresso in Italia, per motivi umanitari e familiari, a 43 persone che si trovano nel territorio palestinese attaccato dall’esercito israeliano. Tra loro ci sono diverse famiglie con bambini, 22 in totale, 11 dei quali hanno meno di 10 anni, neonati compresi. Ma il rilascio dei visti non è mai arrivato.
«Dopo un’iniziale interlocuzione, il consolato italiano ha smesso di rispondere alla richiesta di garantire l’uscita in sicurezza delle persone da Gaza», dice Erminia Rizzi, operatrice legale dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), che sta seguendo i ricorsi delle famiglie in Italia. Da quando i giudici hanno pubblicato i provvedimenti cautelari con cui ordinano al ministero degli Affari esteri e alle rappresentanze diplomatico-consolari italiane il rilascio dei visti d’ingresso a favore dei cittadini e delle cittadine palestinesi, nessuno di loro è stato tratto in salvo.
Nelle sue pronunce, il Tribunale di Roma ha richiamato la Convenzione Onu sulla prevenzione e la repressione del crimine di genocidio, sottolineando il «dovere di protezione attiva» del Paese nei confronti di una popolazione in situazione di rischio estremo. Nel provvedimento pubblicato dal Tribunale l’11 agosto 2025 si legge: «Il dovere di prevenzione che grava sull'Italia non può che tradursi, sul piano individuale, nell'obbligo di offrire protezione a coloro che da quel rischio fuggono, non potendo lo Stato rendersi indirettamente complice di una situazione che ha il dovere di contrastare».
Secondo Asgi: «Il silenzio dello Stato italiano non trova alcuna giustificazione ed è evidente la responsabilità che si assume per l’inerzia sin qui dimostrata. Si tratta di una responsabilità istituzionale grave, aggravata dal disconoscimento dell’autorità delle decisioni giudiziarie e dall’omessa tutela di persone vulnerabili, tra cui minori».
Maria Pia Montemitro, in attesa di ritrovare suo marito, nel frattempo ha lasciato il lavoro e iniziato lo sciopero della fame: «Non riuscivo più a fare niente, la faccia sta sempre sullo schermo per cercare sue notizie, il pensiero va sempre da una parte – racconta –. È difficile credere che non sia possibile agire più tempestivamente ed è per questo che inizio lo sciopero, perché desidero vi sia un impegno concreto per tutti coloro che hanno richiesto e ottenuto risposta positiva dal Tribunale». Per chiedere di rispettare la decisione dei giudici, si è rivolta all’ambasciata italiana di Gerusalemme e al consolato italiano di Amman, ha scritto alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni e al ministro degli Esteri Antonio Tajani.
Nonostante in passato il Consolato abbia risposto dicendo che le pratiche andavano avanti, la situazione non è cambiata. «Le famiglie che attendono il visto per i propri parenti dispongono di tutti i mezzi economici per supportare i propri cari. Non saremmo di alcun peso per lo Stato nemmeno per il trasferimento – dice Maria Pia –. La questione non è solo burocratica o amministrativa, ma anche politica e diplomatica. Esistono delle storie individuali all’interno di questa storia collettiva in cui i volti tendono a scomparire». Suo marito, come ogni cittadino e cittadina palestinese a Gaza, dall’inizio della guerra ha subito molteplici evacuazioni forzate, soffre la fame, ha affrontato vari ricoveri per malnutrizione e malattie virali, e presenta tuttora delle condizioni di salute critiche: «È stato sfollato sette volte ed è senza dimora da due anni. Dopo l’ennesimo ordine di spostarsi verso Sud, le cose sono ulteriormente peggiorate. Con sé ha una tenda per accamparsi e poco altro. L’unico pasto al giorno disponibile serve solo a non sentire i morsi della fame, ma non a rimanere in salute».
In più di metà della Striscia, Internet spesso non è disponibile e avere notizie dai propri parenti è diventato più problematico. Erminia Rizzi, che tiene i contatti con le persone a Gaza in attesa del visto, riceve testimonianze dirette della distruzione in corso: «Da mesi, nelle videochiamate, vediamo le persone sempre più deboli, emaciate, incapaci anche di stare in piedi per la mancanza di cibo e acqua. Si stanno consumando davanti ai nostri occhi. Nell’ultimo periodo, molti assistiti sono stati colpiti e sono sopravvissuti a stento, nonostante le ferite riportate».
Tra i cittadini Gazawi in attesa di entrare in Italia, c’è chi ha ricevuto minacce personali da esercito e coloni israeliani, chi ha subito fino a 19 ordini di evacuazione, chi è stato attaccato da droni entrati nelle abitazioni e persone rimaste ferite sotto le bombe che hanno bisogno di cure. «Queste persone non hanno più tempo e ogni ritardo da parte delle autorità nel rilascio del visto non solo è incomprensibile, ma mette di fatto ancora più in pericolo le loro vite» aggiunge l’operatrice legale.
Le storie di chi si trova prigioniero a Gaza sono tante. Uno di loro, dopo aver accompagnato i genitori in Egitto perché potessero ricevere le cure mediche necessarie, diventate inaccessibili a causa dei bombardamenti nella Striscia, con la chiusura del valico di Rafah nella primavera 2024, è stato separato da sua moglie e i tre figli. Tutti e cinque sono riconosciuti dalle Nazioni Unite come rifugiati palestinesi, in quanto discendenti da coloro che hanno perso casa e mezzi di sussistenza nel conflitto israelo-palestinese del 1948, e hanno parenti in Italia che hanno dichiarato e dimostrato di poterli accogliere. Nonostante il Tribunale di Roma abbia riconosciuto a questa famiglia il rilascio del visto, l’autorizzazione del ministero a raggiungere l’Italia non è arrivata.
Disporre formalmente i documenti tuttavia non basta. I giudici hanno indicato che il ministero deve attivarsi con ogni azione possibile per garantire l’ingresso sicuro delle persone entro i confini italiani. Finora lo Stato non ha dato riscontro agli ordini del Tribunale, né spiegazioni su quali richieste siano state inviate alle autorità israeliane e quali risposte siano state fornite, dice l’avvocato Asgi Dario Belluccio: «Il ministero degli Affari esteri ha sostenuto che non esiste la possibilità di rilasciare visti per motivi familiari e umanitari, ma la legge europea e quella italiana dicono il contrario. A meno che non arrivino i visti, occorrerà valutare altre iniziative, perché il comportamento della pubblica amministrazione è illegale. Stiamo parlando di un mancato adempimento a un ordine giudiziale che aggrava di ora in ora la situazione delle persone a Gaza che hanno diritto a ricevere il visto». Interrogato da L’Espresso in merito al suo mancato intervento, il ministero degli Affari esteri non ha fornito al momento nessuna risposta.
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