Mondo
16 ottobre, 2025Usa superlativi, promesse assolute, domande retoriche. Parla come un comico di stand-up, come un banditore d’asta. Non sviluppa un ragionamento: crea un ritmo, che tiene più della logica
Donald Trump non ha soltanto fatto politica: l’ha trasformata in teatro. Ogni gesto, ogni parola, ogni apparizione è stata calibrata per diventare parte di un copione più grande, una narrazione che travolge e riscrive le regole del gioco democratico. Lo si è visto nei rapporti burrascosi con Zelensky e Putin durante la crisi ucraina, come pure con i leader europei: la sostanza diplomatica è sempre stata avvolta in una messa in scena. Per capire il fenomeno bisogna entrare nella sala macchine del suo linguaggio e osservare come costruisce l’attenzione, la devia, la moltiplica, fino a saturare lo spazio pubblico.
Lo stile di Trump è un flusso sincopato, fatto di riff e anafore, interrotto da iperboli improvvise. Parla come un comico di stand-up, come un banditore d’asta. Usa superlativi, promesse assolute, domande retoriche, e soprattutto quella seconda persona singolare («sapete», «vedete») che crea un’intimità fittizia con la folla. Non sviluppa un ragionamento: crea un ritmo. E il ritmo tiene più della logica.
La regia corrisponde a questa musica di parole. Annunci e smentite, ordini esecutivi e retromarce si susseguono a velocità superiore al ciclo delle notizie. L’opposizione non fa in tempo a reagire. Nei primi mesi del secondo mandato, i provvedimenti apparivano e sparivano come in un gioco di prestigio: dazi, licenziamenti, urti istituzionali. La cittadinanza restava stordita, incapace di distinguere cosa fosse reale e cosa effimero. La strategia è chiara: saturare per regnare.
Ogni atto di governo deve diventare spettacolo. La firma di una legge si trasforma in tableau vivant; le riunioni di gabinetto diventano talk show; i viaggi presidenziali episodi narrativi. Persino la scelta dei collaboratori risponde a logiche di casting: J.D. Vance, il vicepresidente, non è solo un politico, ma il protagonista di un bestseller diventato film. L’accoglienza dei capi di Stato segue uno storyboard ripetuto: ingresso, salotto nello Studio Ovale, conferenza stampa.
Ma il teatro da solo non basta: serve una teologia politica. La trama è antica e potente: un’America violata dalle élite corrotte, dall’immigrazione incontrollata, dalla globalizzazione ingiusta; e un salvatore, sopravvissuto miracolosamente a un proiettile in Pennsylvania, destinato a guidare il Paese e forse il mondo. Pastori evangelici che impongono le mani nello Studio Ovale, liturgie di invocazioni religiose, promesse di redenzione: la fede politica si sostituisce alla mediazione delle istituzioni. Chi dubita, tradisce la missione.
Al profeta si affianca il bullo. Trump governa attraverso lo scherno: più di cento soprannomi affibbiati agli avversari, insulti agli immigrati, minacce a giudici e governi stranieri. L’umiliazione diventa strumento di disciplina collettiva, la disumanizzazione dell’avversario riduce la complessità a un “noi contro loro” viscerale. La violenza verbale non è un incidente: è collante identitario.
Questa grammatica alimenta una disintermediazione aggressiva. La Casa Bianca ha svuotato la stampa tradizionale, popolando un ecosistema parallelo di social, newsletter, portali ufficiali. Nei “deserti informativi”, dove i giornali locali sono scomparsi, prosperano siti e pagine che imitano il giornalismo senza verificarne i criteri. La White House Wire rilancia clip favorevoli e costruisce una realtà alternativa confezionata per i fan. È la politica direct-to-consumer: niente mediatori, solo followers.
Il risultato è un’America sempre meno incline a cercare attivamente notizie, sempre più dipendente da messaggi push. L’informazione perde il tempo lungo dell’inchiesta e adotta quello breve del post: shock, ritmo, reiterazione. È l’habitat perfetto per la truthful hyperbole, l’iperbole veritiera teorizzata da Trump già nel 1987. Il superlativo ripetuto diventa verità per accumulo. Tre le armi principali: l’iperbole a cascata («il più grande», «il peggiore»); il gish gallop, la raffica di numeri e aneddoti che confonde l’avversario; la menzogna reiterata fino a sembrare plausibile. Il fact-checking arriva sempre in ritardo: quando la smentita appare, il danno è già compiuto.
A questa strategia si aggiunge la dichiarazione costante di emergenze nazionali: immigrazione, commercio, sicurezza. La minaccia è ovunque, la protezione è il frame unico. È la cosiddetta teoria del folle: dare l’impressione di essere imprevedibile, capace di tutto, per costringere l’avversario a cedere terreno. Il prezzo è un clima internazionale di incertezza, da cui regimi illiberali traggono vantaggio.
Quando la narrazione vacilla, entra in scena la macchina della distrazione. Il caso Epstein lo ha mostrato bene: la base scricchiola, e subito partono cortine fumogene. Se una teoria del complotto si inceppa, se ne fabbrica un’altra. Se un tema diventa pericoloso, si sposta l’attenzione su meme, deepfake, polemiche pop. La tattica è semplice: saturare il flusso con contenuti emotivi, costringere media e opposizione a inseguire.
Il paradosso è che il pubblico sa che molte affermazioni non sono vere, eppure l’insistenza, l’errore, persino la menzogna diventano segni di autenticità. L’uomo che “dice ciò che pensa” appare più autentico dei politici che parlano “bene”. Già nel 2017 Kellyanne Conway aveva inventato la formula «fatti alternativi», legittimando la menzogna come categoria del discorso pubblico. Da allora la sfiducia verso istituzioni e media non ha fatto che crescere. La democrazia americana, fragile patto di credibilità condivisa, si trova su un terreno sdrucciolevole dove ogni certezza è ribaltabile.
Il rischio non è solo l’erosione del discorso pubblico, ma l’assuefazione a una realtà continuamente riscritta come sceneggiatura. Ogni crisi diventa atto drammatico, ogni decisione un effetto speciale. La politica non si misura in leggi o programmi, ma in narrazioni capaci di saturare l’immaginario. Anche la critica più feroce diventa carburante dello spettacolo, ulteriore esposizione.
La forza di Trump non è convincere i non convinti, ma galvanizzare chi già lo segue. La sua è politica della fedeltà più che del consenso: un patto emotivo, quasi tribale, che resiste alle smentite e si rafforza nell’assedio mediatico. Per i sostenitori, Trump non è un presidente, ma un eroe epico, tragico e farsesco insieme, incarnazione dell’America profonda contro le élite globali.
Il punto non è moltiplicare smentite, ma cambiare registro. Servono media capaci di rallentare senza perdere presa, di ricomporre storie invece di rincorrere frammenti. Serve una politica che sappia raccontare risultati e limiti con la stessa forza con cui oggi si raccontano promesse. Una cultura pubblica che distingua l’energia della verità dall’adrenalina della finzione.
Trump ha attivato un’estetica del potere e un’ingegneria dell’attenzione. Mito e trucco si sostengono a vicenda: il primo dà senso, il secondo garantisce durata. Per questo analizzare l’estetica del trumpismo non è un vezzo, ma un compito civile. Finché la politica resterà spettacolo, il rischio non sarà solo la circolazione della menzogna, ma la sparizione della realtà stessa.
Se la democrazia vuole smettere di recitare sul palco altrui, deve tornare a scrivere copioni che reggano dentro e fuori la scena. Un’estetica della responsabilità: parole che illuminano invece di ipnotizzare, conflitti che si spiegano invece di spettacolarizzarsi, eccezioni che restano eccezioni. Solo così l’incantesimo si spezza e lo spettacolo torna politica.
LEGGI ANCHE
L'E COMMUNITY
Entra nella nostra community Whatsapp
L'edicola
Medici Zombie - Cosa c'è nel nuovo numero de L'Espresso
Il settimanale, da venerdì 17 ottobre, è disponibile in edicola e in app