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28 ottobre, 2025A Balata, i raid dell’esercito israeliano si ripetono a cadenza quotidiana. Vittime e arresti. “Vedono i giovani come potenziali nemici futuri, obiettivi da annientare”
Il cielo si intravede a malapena nel campo profughi di Balata, città di Nablus, tra i palazzi affollati e le costruzioni ammassate. Blocchi contigui di cemento, crivellati dai proiettili, distano pochi metri l’uno dall’altro. Su ogni muro scorrono senza interruzione le foto dei martiri, quasi tutti ragazzi, uccisi dall’esercito israeliano durante i raid che colpiscono il campo quotidianamente.
Sorto negli anni Cinquanta per accogliere i profughi palestinesi cacciati da Jaffa e dintorni, il campo di Balata prende il nome dalla cittadina nelle vicinanze e ospita circa 35.000 persone. Oggi è un tutt’uno con la città di Nablus, in area A, sotto formale controllo dell’Autorità nazionale palestinese.
Il 21 gennaio scorso, sotto pressione dell’estrema destra, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato l’inizio dell’operazione militare denominata “Muro di Ferro”, in Cisgiordania. Tra le città e i campi più colpiti: Nablus, Jenin e Tulkarem. Zone in cui sono attivi gruppi armati locali. Per il Centro palestinese per i diritti umani, questa escalation fa parte della «politica sistematica di pulizia etnica di Israele, insieme alla sua accelerata espansione degli insediamenti e agli sforzi per annettere la Cisgiordania e rafforzarne il controllo».
Dal 7 ottobre 2023 i raid dell’esercito israeliano nel campo di Balata sono sempre più frequenti e violenti, e dopo la fragile tregua raggiunta a Gaza il 10 ottobre scorso – già violata più volte da Hamas e dall’esercito israeliano – i residenti temono un’ulteriore escalation.
Il 18 novembre 2023, Niveen, 38 anni, ha perso suo figlio Muhammad, 17 anni. Un bombardamento israeliano, probabilmente con droni, ha colpito un edificio lungo la strada d’ingresso del campo. Erano le 23.50 di venerdì. Muhammad stava camminando poco distante dall’edificio quando il missile ha colpito l’area. Altre quattro persone sono state uccise nell’esplosione, tutti ragazzi.
Niveen ha saputo della morte del figlio tramite una app, Zello, un walkie talkie digitale usato dagli abitanti del campo per comunicare durante i raid. All’inizio non credeva fosse davvero lui. Solo all’ospedale ha avuto la conferma. Il corpo di Muhammad era stato diviso a metà dall’esplosione. Solo il viso era rimasto intatto.
Nel salotto, illuminato da una singola lampadina bianca, Niveen conserva la scarpa squarciata del figlio, l’unica cosa sopravvissuta al bombardamento. Intorno, decine di fotografie di Muhammad nel corso della sua vita.
«Da quando mio figlio è stato ucciso, l’esercito è entrato di nuovo in casa. Hanno demolito i muri. Ora dormiamo tutti in una stanza: io, i miei cinque figli e mio marito. La vita nel campo non si può descrivere. Non si respira. Gli attacchi dell’esercito israeliano hanno creato questa situazione terribile. In passato si riusciva almeno a uscire di casa, anche durante i raid, ma nulla in confronto a quello successo dopo il 7 ottobre. Ora non si può neppure raggiungere l’ingresso del campo. Ho paura a lasciare uscire mio figlio, in ogni momento potrebbe esserci un nuovo raid», racconta Niveen. «Quando entrano i militari, è il terrore. La prima cosa che faccio è radunare i figli, nascondere mio figlio maschio e chiudere la porta. «Viviamo con la paura. Non dormo. Temo che possa succedere qualcosa agli altri miei figli», racconta Niveen.
Secondo i dati forniti dalle Nazioni Unite, dal 7 ottobre più di 1.000 palestinesi sono stati uccisi, 7.000 feriti e oltre 15.000 arrestati in Cisgiordania.
I raid dell’esercito israeliano nel campo di Balata sono quotidiani. I residenti del campo raccontano che quando l’esercito entra nel campo, spesso con le sue forze speciali, inizia subito a sparare. «Quando i residenti del campo vedono i soldati è il caos. Tutti iniziano a urlare e correre. È terrificante. Fanno arresti arbitrari, distruggono le case, i mobili», racconta Ali, un ragazzo del campo
Per Niveen la strategia dell’esercito israeliano è solo una, quella di uccidere più palestinesi possibile. «Colpiscono i giovani perché in futuro potrebbero combattere l’esercito israeliano. Per loro è meglio ucciderli ora. Il futuro è zero. Cancellato. Non ci pensiamo nemmeno perché non lo vediamo».
Un rapporto dell’Ong israeliana B’Tselem afferma che «Israele tratta il campo come se non fosse abitato. Lo considera un focolaio di attività nemiche, da neutralizzare, ignorando il danno inflitto al tessuto sociale e umano del campo. Le operazioni vengono giustificate come necessarie, anche a fronte della devastazione. Gli interessi dei residenti non vengono mai presi in considerazione. Solo quelli di Israele. È, scrive l’Ong, una chiara manifestazione del regime di apartheid, che lavora per preservare la supremazia ebraica tra il Mar Mediterraneo e il fiume Giordano».
A Jenin, la strada d’ingresso al campo è bloccata da cumuli di terra formati dai bulldozer israeliani. Alcuni sono alti quanto le abitazioni e ne sigillano le porte. Le strade sono state distrutte dalle ruspe.
Dal gennaio 2025 l’esercito israeliano occupa militarmente il campo profughi di Jenin e da lì conduce raid quotidiani in tutta la città. Secondo l’Ufficio per il coordinamento degli affari umanitari (Ocha), l’operazione israeliana ha sfollato più di 40.000 palestinesi.
Ahmad, 32 anni, è stato costretto a scappare dal campo di Jenin nel gennaio 2025 e ora vive a dodici chilometri dal campo, a Zababdeh, all’interno del campus progettato per gli studenti della vicina Arab American University, ora rifugio per oltre 150 famiglie. Gli edifici sono sovraffollati e le condizioni disumane. In una singola stanza sono costrette a vivere dalle 6 alle 8 persone.
Il campo di Jenin è stato interamente sfollato dall’esercito israeliano. L’area è occupata e circondata dai militari. Sui tetti, i cecchini impediscono alle famiglie di farvi ritorno.
Ahmad ricorda con chiarezza il momento in cui l’esercito è entrato nel campo. «Due jeep militari sono arrivate cariche di soldati. Una si è fermata davanti a casa nostra, l’altra poco distante. Ci hanno ordinato di lasciare l’abitazione perché la zona sarebbe diventata un’area militare».
Due settimane dopo, Ahmad è ritornato a casa per recuperare alcuni oggetti per la famiglia. Quando i militari israeliano lo hanno scoperto lo hanno arrestato. «Per due giorni sono stato picchiato nella base militare, poi mi hanno rilasciato minacciandomi di non fare più ritorno a casa, altrimenti mi avrebbero ammazzato».
Prima del 7 ottobre Ahmad lavorava in un ristorante ad Haifa, in Israele. Ora è disoccupato. «Per qualche tempo, il comitato dei servizi del campo ha coperto l’affitto dell’appartamento, ma ora hanno smesso di pagare. Il proprietario dell’edificio minaccia di cacciarci se non saldiamo. Ma qui nessuno lavora. Nessuno può permettersi nulla. Viviamo letteralmente con i soldi che arrivano dall’Unrwa. A volte ci danno 1.600 shekel al mese (circa 400 euro), a volte 3.000 shekel ogni tre mesi. È tutto ciò che abbiamo».
«Per noi Jenin era tutto, la nostra casa. Una comunità forte, fatta di migliaia di relazioni umane. Per questo motivo hanno voluto distruggerla».
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