Opinioni
28 ottobre, 2025La normalizzazione politica, la fisiologia del potere per i grillini della prima ora è una ferita aperta
C’è un momento, nella vita di ogni movimento politico, in cui i rivoluzionari scoprono di essere diventati establishment. Quando la rabbia che incendiava le piazze diventa il brusio sommesso delle riunioni di partito. Per Giuseppe Conte è arrivato quel momento. Rieletto senza avversari alla guida del Movimento 5 Stelle, più per mancanza di contendenti che per entusiasmo plebiscitario, l’ex presidente del Consiglio appare come un leader solitario, saldo in un potere che nessuno vuole davvero ereditare. Ma sotto questa superficie di consenso si muove un disagio crescente: quello di una comunità politica che, da fuoco di protesta, è diventata brace di governo, e che ora si chiede cosa resti delle origini.
Il grido più forte arriva da Torino, dove Chiara Appendino, ex sindaca e un tempo simbolo della conquista grillina delle istituzioni, ha scelto la via dei social per lanciare la sua requisitoria. Accusa Conte, di cui è stata finora la vice, di non riuscire più a trasformare la rabbia in speranza, e di aver snaturato il Dna del Movimento: «La nostra sfida non può essere snaturarci per conquistare qualche posto di potere in più».
Il paradosso è evidente. Chi invoca il ritorno alla purezza originaria viene da un’esperienza amministrativa che proprio quella purezza l’ha logorata. Torino, dopo cinque anni di giunta Appendino, consegnò ai Cinquestelle un crollo dal 30 all’8 per cento. Eppure, la sua denuncia coglie nel segno: Conte guida oggi un partito sospeso tra il rimpianto e l’adattamento, tra l’illusione di poter tornare com’era e la necessità di sopravvivere com’è diventato.
A due anni dalle prossime elezioni politiche, il bilancio è magro. In Toscana, 4,3 per cento; nelle Marche, 5; in Calabria, 6. Numeri che certo non consentono di imporre condizioni nel “campo largo”. Se poi anche la Campania, roccaforte di Roberto Fico e terra madre del reddito di cittadinanza, dovesse fermarsi sotto il 10 per cento, il malumore rischia di diventare sommossa interna, con la benedizione di Marco Travaglio, il grande suggeritore del leader di turno.
Conte, in fondo, paga la metamorfosi che lui stesso ha accompagnato: il Movimento nato per «aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno» ora difende il potere conquistato nel Palazzo, abbandonando i vecchi tabù uno dopo l’altro. Addio al limite dei due mandati, addio al rifiuto dei finanziamenti pubblici, addio alla crociata contro la Rai lottizzata. È la normalizzazione politica, la fisiologia del potere. Ma per i grillini della prima ora, abituati a pensarsi come un’anomalia etica, è una ferita aperta.
Gli ex pasdaran della purezza, da Taverna a Crimi, sono diventati funzionari di partito. Altri, come Di Battista, hanno imboccato la strada del disincanto, osservando la trasformazione del movimento da una postazione fissa in quei salotti televisivi che un tempo sbeffeggiavano. E ora, di fronte al richiamo romantico dell’Appendino, il dilemma si ripresenta: è meglio tornare soli e puri, o restare impuri ma vivi?
La verità è che non si torna indietro. Chi ha conosciuto il potere non può più fingere di non averlo toccato. Chi ha governato, non può più recitare il ruolo dell’antipolitico. È tardi per la nostalgia. Il Movimento 5 Stelle è entrato nella maturità politica con la stessa fatica con cui un adolescente accetta di diventare adulto: protestando contro lo specchio. Ma la politica non perdona chi resta a metà strada tra il passato e il presente.
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