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9 ottobre, 2025Case distrutte, migliaia di sfollati e nessuna giustizia. Nonostante le devastazioni israeliane nel campo profughi, il Freedom Theatre continua a resistere all’occupazione
Jenin è la città simbolo della resistenza palestinese. Un luogo che porta ferite profonde. Lo si legge negli sguardi dei bambini che vanno a scuola, nelle voci delle donne che tengono vivo il mercato, nelle storie degli anziani che custodiscono la memoria. Nel cuore di questa città c’era il campo profughi, fondato nel 1950 dall’Onu per accogliere i rifugiati della Nakba del 1948. Molto più di un insieme di case, molto più di una comunità. Era un tessuto umano che ha imparato a respirare controcorrente, a tessere legami tra cortili affollati e a scambiarsi storie tra generazioni, a sopravvivere all’occupazione. La memoria vive sui muri, nelle foto alle finestre, nei racconti che si tramandano con tenerezza ma anche con la forza di chi non vuole che il tempo cancelli ciò che è stato. Intere generazioni sono cresciute nel campo dove l’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, era una presenza fondamentale, offrendo istruzione, assistenza sanitaria e aiuto alimentare.
Almeno fino a quando le forze militari israeliane hanno deciso, lo scorso gennaio, di radere tutto al suolo. Le esplosioni hanno cambiato le strade, trasformandole in luoghi di paura costantemente militarizzati; hanno spezzato routine quotidiane, danneggiato case e spostato famiglie in cerca di rifugio. In totale circa settecento abitazioni rase al suolo. I bulldozer non hanno risparmiato nemmeno le infrastrutture civili, perfino nei pressi degli ospedali per un totale di circa diciassettemila sfollati. Famiglie senza più passato né futuro. Una delle espressioni più vive del campo era il Freedom Theatre. Ora è solo l’eco pallida di una città martoriata che però, resiste, anche tra le macerie, perché a resistere sono gli insegnamenti, l’energia che è riuscito ad innestare tra le persone, specialmente i bambini dai sei anni in su che partecipavano alle lezioni.
Nel 1987 il suo nome era Stone Theatre. Nato dalla passione della fondatrice, Arna Mer-Khamis, una cittadina israeliana ebrea sposata con un palestinese che aveva scelto di stare dalla parte dei bambini di Jenin. Fu l’inizio di un’esperienza culturale e politica unica. Lo Stone Theatre fu raso al suolo durante la seconda Intifada, nel 2002. Ma quattro anni dopo, nel 2006, il figlio di Arna, Juliano Mer-Khamis, attore, regista e attivista, fece rinascere lo spazio con il nome di Freedom Theatre. Voleva portare avanti il sogno della madre. Anche lui pagò un prezzo altissimo: nel 2011 fu assassinato a Jenin da un uomo dal volto coperto. Nessuno ha mai pagato per il suo omicidio. È uno degli aspetti più difficili da sopportare per i palestinesi: l’impossibilità di ottenere giustizia. Pur nella disperazione e nella distruzione del momento, il Freedom Theatre resta una roccaforte di luce: un luogo dove la cultura diventa cura, dove la creatività dei giovani si fa respiro e speranza, dove insegnare per qualche ora ai bambini solo a pensare in grande e garantire loro il diritto all’infanzia, dice Mustafa Sheta, direttore del teatro e anima del progetto culturale. «La prima opera che ho portato in scena è stata “La fattoria degli animali” di Orwell. E sai perché? Perché ho voluto insegnar loro che la resistenza non è un concetto vuoto, non è combattimento ma cultura anti-coloniale. Per insegnare ai bambini a non soccombere, a lottare per quello in cui credono».
Mustafa ci accoglie in una nuova sede fuori dal campo ormai completamente militarizzato dall’Idf, dove i palestinesi non hanno più accesso e nemmeno i giornalisti. È qui che prova a ricostruire tutto, dalla cultura, provando a recuperare i tanti bambini e ragazzi che con il teatro coltivavano speranza e resistenza non armata. A Jenin è difficile trovare qualcuno che non si porti addosso qualche ferita profonda causata dall’occupazione israeliana. Figli, fratelli, cugini uccisi. Il padre di Mustafa è stato ucciso dai soldati israeliani nel 2002. La città è allo stremo, la disoccupazione ha raggiunto livelli altissimi, quasi quanto la rassegnazione. Il Freedom Theatre ha resistito oltre ogni pronostico superando distruzioni e arresti. Lo stesso Mustafa è stato per ben due volte dietro le sbarre, l’ultima volta per quindici mesi. Il carcere lo ha segnato ma non gli toglie il sorriso e lo sguardo fiero. Nessuna accusa, nessun processo. Non conosce neanche il motivo della sua carcerazione: «Per i palestinesi il concetto di giustizia è vago, come fosse un’ambizione inarrivabile. Mi hanno accusato di mettere a rischio la sicurezza di Israele con il mio lavoro, con il teatro, capisci?»
In Palestina anche la cultura è considerata un atto eversivo e Mustafa con i suoi insegnamenti rappresentava una minaccia: «Non dimenticherò mai il 7 ottobre scorso, a un anno di distanza dalla strage del Nova Festival. La polizia penitenziaria israeliana del carcere di Jenin dove ero rinchiuso arrivò all’alba nel padiglione dove eravamo rinchiusi, fuori dalle nostre celle. Abbiamo sentito i militari ridere e urlare. Poi è iniziato il countdown. All’improvviso hanno aperto le nostre celle, una per una, una alla volta. Sono entrati e ci hanno massacrato di botte dal primo all’ultimo. Ho avuto la sfortuna di essere nella cella numero uno quindi con me hanno scatenato tutta la forza possibile. Ma ho avuto la fortuna di non dover attendere il mio turno sentendo le grida degli altri senza poter intervenire in alcun modo. Le celle erano circa 24. Sono rimasto vivo ma posso sentire ancora il dolore di quell’ingiustizia». A chi ancora ignora la storia del popolo palestinese Mustafa Sheta consiglia di leggere il saggio di Ilan Pappé sulla pulizia etnica della Palestina. «È uno storico israeliano», dice, «forse a lui crederanno».
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