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28 novembre, 2025Ricostruzione ed estrazione sono la vera posta in gioco del piano per la fine del conflitto. Così l’Ucraina è stritolata dalla Russia sul territorio e dall’America per gli interessi
Che la fine della guerra tra Russia e Ucraina passasse da Washington era evidente da tempo. Almeno da quando è risultato chiaro che sul campo di battaglia non ci sarebbe stata una vittoria netta di nessuna delle parti. Con il trascorrere dei mesi e soprattutto con l’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca, tuttavia, le condizioni per il raggiungimento della pace si sono trasformate progressivamente dalla «pace giusta» invocata urbi et orbi dai vertici di Kiev, in una trattativa che pone gli interessi strategici e commerciali degli Stati Uniti al primo posto. Contemporaneamente, quella che in Russia viene definita «la risoluzione delle cause profonde del conflitto» si è chiaramente delineata come una richiesta di resa per gli ucraini: territori (conquistati e non), riduzione dell’esercito, divieto perenne di ingresso nella Nato, insegnamento della lingua russa nelle scuole, riconsegna degli armamenti più avanzati, sostituzione di Zelensky subito dopo il cessate il fuoco. Insomma, mentre l’Europa si affanna tra una riunione e l’altra per cercare di dimostrare che conta ancora qualcosa nello scacchiere geopolitico globale – o almeno sul proprio Continente – il futuro dell’Ucraina sembra destinato a essere mutilato nel territorio dalla Russia e nella capacità produttiva dagli Stati Uniti.
L’inviato speciale degli Usa, Steve Witkoff, e il genero di Trump, Jared Kushner, avevano costruito la «proposta in 28 punti» sulla base di due principi molto semplici: accontentare la maggior parte delle richieste russe e fare in modo che le aziende statunitensi guadagnassero il più possibile. Era stata prevista addirittura una sorta di tassa sulla ricostruzione dell’Ucraina che avrebbe portato a Washington la metà di tutti i proventi di un fondo costruito con gli asset russi e i soldi europei. Bruxelles ha dovuto reagire, si sarebbe trattato di una sottomissione troppo palese. Soprattutto se si considera che sono i Paesi dell’Ue ad aver speso di più per il sostegno economico-militare a Kiev. Ma eliminata, o posticipata, l’umiliazione, resta il fatto che le aziende a stelle e strisce si sono già accaparrate le prebende della ricostruzione e la possibilità di iniziare a trivellare il terreno per avviare lo sfruttamento dei giacimenti minerari ucraini, come previsto dall’Accordo per le terre rare. Il fondo ad hoc già costituito, teoricamente controllato a metà da Usa e Ucraina, nella pratica è sbilanciato verso Washington in virtù degli ultimi acquisti di armi a debito effettuati da Kiev. «Ora le armi ce le pagano», si è vantato più volte Trump, parlando di Kiev come di uno sfruttatore o di un fardello a seconda del caso.
Ma la retorica del Paese buono e generoso di cui tutti si approfittano si scontra con i fatti. Nell’ultimo anno gli Usa si sono inseriti in ogni aspetto nevralgico della produzione nazionale ucraina, dalla logistica portuale all’energia, passando per la produzione agro-alimentare, i fertilizzanti, la fiorente produzione di droni militari, il settore siderurgico e quello informatico. Certo, la presenza di aziende statunitensi e di consulenti politico-economici nel Paese era già significativa, ma Trump gli ha impresso un’accelerazione senza precedenti. Si tratta di risorse che, una volta finita la guerra, rappresentano la speranza principale di ripresa economica per l’Ucraina, ovvero di indipendenza. In questo modo il tycoon si è assicurato una sorta di feudo in Europa dell’Est, in una posizione altamente strategica e a discapito dell’Unione europea.
Ai Paesi del Vecchio Ccontinente andranno le briciole. Bruxelles sconta la mancanza di unità tra le proprie fila, non solo per la presenza di governi filo-russi come l’Ungheria di Viktor Orbàn, ma soprattutto per le visioni divergenti sul futuro. Tra chi vorrebbe un esercito e una politica estera unica, come Emmanuel Macron, che nel frattempo continua a ribadire la necessità di inviare una forza di pace europea sul suolo ucraino dopo la firma del cessate il fuoco (nonostante il no categorico di Russia e Usa) e chi si barcamena tra una sponda e l’altra dell’Atlantico, come Giorgia Meloni, che ribadisce l’importanza di accodarsi alla Casa Bianca. Il risultato delle diverse spinte nazionali è la mancanza di una posizione unica, sebbene Ursula von der Leyen si affanni a ribadire che l’Ue è unita al fianco dell’Ucraina. La verità è che Bruxelles è terrorizzata dai piani degli Usa per la fine della guerra: teme che possano (come emerso dalla prima bozza del piano di pace) ridefinire i rapporti di forza in Europa senza tenere conto degli europei, che alla fine siano percepiti come una vittoria russa difficilmente difendibile di fronte alle nostre opinioni pubbliche. Alle quali dal 2022 si è detto che la Russia è il nemico di domani e che c’è bisogno di riarmarsi per far fronte a quella minaccia. Tra l’altro, senza neanche produrre le armi sul suolo europeo, ma comprandole dagli Usa. A Trump la lotta degli ucraini contro l’invasione russa sembra interessare solo nella misura in cui sta arricchendo le industrie militari del suo Paese grazie al Purl (Prioritized Ukraine Requirements List) che “permette” agli europei di acquistare armi made in Usa da inviare in Ucraina e sta impegnando un concorrente diretto nella spartizione del mondo.
Dall’inizio di quest’anno Volodymyr Zelensky ha utilizzato ogni possibile risorsa ucraina per convincere Trump a fare affari con il suo Paese, chiedendo come contropartita sempre le stesse due cose: armi nell’immediato e sostegno politico per i negoziati. Sul primo punto, con alti e bassi, Kiev è riuscita ad assicurarsi una certa continuità, senza dimenticare che il flusso è rimasto costante grazie agli europei. Ma sulle trattative Trump ha tenuto un atteggiamento ondivago, soggetto a frequenti cambi d’umore – tramutati in minacce – e all’evoluzione della contingenza. Almeno in pubblico e sui media. Nei momenti decisivi, si è sempre schierato dalla parte di Vladimir Putin, fino all’incontro di Anchorage in Alaska che ha definitivamente riabilitato la figura del presidente russo dopo l’ostracismo imposto da Joe Biden e dell’Ue a rimorchio.
Mosca non è il nemico designato dell’amministrazione Maga. Da mesi si esplorano gli ambiti dove la cooperazione con il Cremlino sarebbe più lucrativa e, anche in questo caso, l’apporto di Steve Witkoff è fondamentale. I suoi incontri con la controparte russa, il capo del fondo sovrano per gli investimenti diretti Kirill Dmitriev, oltre a parlare dell’Ucraina si sono concentrati sulla ripresa dei rapporti economici e commerciali tra una sponda e l’altra dello Stretto di Bering. Il colosso petrolifero statunitense Exxon Mobil è interessato al progetto Sakhalin-1 (estrazione di petrolio e gas sull’isola di Sakhalin, nel Pacifico, considerato un bacino enorme), che è stato abbandonato dopo l’invasione dell’Ucraina e le sanzioni. La Casa Bianca ha applicato diverse sanzioni sulle estrazioni dei russi nell’Artico, tra cui il divieto di fornire navi specializzate. Tuttavia, ora, Trump sarebbe favorevole a rimuovere queste sanzioni per incoraggiare Mosca ad acquistare tecnologia Usa invece di quella cinese. Inoltre, secondo alcune indiscrezioni dei mesi scorsi, in uno degli incontri tra i rispettivi inviati si è anche discussa l’ipotesi che gli Usa acquistino rompighiaccio nucleari russi. Del resto, il vice-presidente JD Vance l’aveva detto chiaramente durante la campagna elettorale: «Bisogna terminare in fretta la guerra in Ucraina per dedicarci al nostro vero nemico: la Cina».
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