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6 novembre, 2025Operation inflation è la sfilata dei costumi gonfiabili con l’obiettivo dichiarato di smontare la narrazione apocalittica del presidente sulle contestazioni
C’è un gruppo che ha capito. Ha capito come far fronte all’avanzare del potere autoritario negli Stati Uniti. Ha capito dove nasce e si consolida il consenso che ha eletto presidente Donald Trump. Ha capito quali sono le regole del gioco e come ribaltarle.
Operation inflation è un collettivo americano con base a Portland, nell’Oregon, che ha compreso che un potere così tronfio e comunicativamente straripante va combattuto sul piano dell’immaginario, dei simboli e della costruzione di senso che convince i cittadini a votarlo. E ha cominciato a farlo distribuendo nelle manifestazioni più a rischio costumi gonfiabili di galline, unicorni, rane, polli e dinosauri, ricercando l’assurdo per combattere l’assurdo. «Mentre l'Ice, (l’Agenzia per l’immigrazione e le dogane), la polizia e la National guard si mostrano sempre più violente – dicono gli attivisti a L’Espresso – questi costumi surreali e luminosi rivelano dov’è che inizia davvero la violenza, e cancellano la possibilità di fare leva sulla demonizzazione dei manifestanti e dei loro simboli».
I membri di questo movimento sanno di dover costruire un nuovo immaginario attorno alle mobilitazioni dal basso, per poterle sottrarre a strumentalizzazioni e delegittimarle. Sanno di dover ingaggiare una vera e propria “guerra dei simboli” con un capo di Stato e di governo che vuol farsi monarca, e che con i simboli sa giocare. Uno che, per dirne un paio, tiene in bella vista, sulla scrivania dello Studio Ovale, il progetto in miniatura di un Arco di Trionfo americano da costruire sulla sponda opposta del fiume Potomac, in occasione dei 250 anni dalla Dichiarazione d’indipendenza americana del 1776. Uno che demolisce l’ala Est della Casa Bianca per farne una sala da ballo da 650 posti, senza aspettare l’autorizzazione della commissione urbanistica preposta e facendosela pagare – 250 milioni di dollari – da investitori privati vicini, tra cui Lockheed, Apple e Amazon.
Trump è un presidente che vuol farsi re, che solletica il bisogno radicato in molti di ridurre la complessità a risposte semplici, incarnate da un potere unico. E lo comunica apertamente. Lo fa quando condivide video generati con l’Ia – significativamente, sulla sua piattaforma social, che ha chiamato Truth, cioè “verità” – rappresentandosi mentre guida, con una corona in testa, un jet da guerra con scritto “King Trump” e sparge liquami sulla folla di manifestanti che protesta al grido di “No Kings”. E lo fa riecheggiato dal suo vicepresidente J.D. Vance, che ha pubblicato a sua volta un altro video Ia in cui il tycoon si autoincorona e vari oppositori politici si prostrano davanti a lui, inginocchiati.
Ma la deriva autoritaria del re che vuole sudditi da dominare non è soltanto simbolica. È già molto concreta. Lo dimostra, tra le altre cose, la caccia al migrante operata dall’Ice tra le strade delle città, sempre più militarizzate. Ma anche il possibile invio di truppe della National guard a Portland e in altre città guidate da sindaci dem. La National guard risponde normalmente ai governatori degli Stati per operare in situazioni di calamità naturale, non al presidente per essere schierata contro manifestanti pacifici. Una situazione, questa, che ha portato i cittadini americani a protestare contro l’Ice in più occasioni, e contro le politiche autoritarie e anti immigrazione di Trump nel “No Kings Day” del 18 ottobre, mobilitazione che ha raccolto 7 milioni di manifestanti in 2.500 piazze e cui il presidente ha risposto con il video dei liquami.
A tutto questo Operation inflation ha risposto innescando un cortocircuito che spezza il dominio narrativo di Trump e dell’informazione a lui allineata.
«Inizialmente, i media nazionali americani si basavano sul cliché delle “città devastate dalla guerriglia” dei manifestanti – spiegano – poi hanno preso a circolare i primi video della rana (Pepe the frog, ndr) e la narrazione è cambiata. All’improvviso, si sono moltiplicate le persone che aiutavano con i costumi, gli articoli sull’atmosfera gioiosa delle proteste e quelli esplicativi del perché non si trattasse di caos, bensì di coreografia ragionata. Non è possibile innescare un cambiamento del genere con un comunicato stampa. Puoi solo costruire la scena e fidarti che il Paese riconosca una risposta sproporzionata quando ne vede una. Lo Stato è entrato in una parodia di se stesso e non è riuscito a uscirne».
Irretito nella trappola dell’assurdo, di un umorismo dal sapore pirandelliano, il re è nudo, così come i suoi sottoposti. È in scacco. E non può più performare a cuor leggero «quella forza, quella ferma certezza con cui loro credono di poter controllare il mondo». Prova ne sia il fatto che, dall’inizio di questa guerra di simboli, sono sempre meno gli agenti dell’Ice che si prestano a intimidazioni e azioni violente contro chi indossa un costume. Questo metodo, infatti, «rende potenzialmente virale ogni atto dello Stato, e nessun agente vuole essere il tizio che finisce su TikTok perché ha attaccato un gigantesco unicorno scintillante».
Se l’autoritarismo non ha dalla sua i media, quelli che Roger Silverstone definiva piattaforme su cui si erige la morale pubblica, perché costruiscono immaginari e ci fanno orientare nel mondo, la situazione cambia. Perché, concludono gli attivisti del collettivo, «la logica dell’escalation dipende da un pubblico convinto che questa sia necessaria. Ma il modo più efficace per combattere il fascismo è costringerlo ad apparire per quello che è: un potere insicuro che gioca a travestirsi. Ora, però, il pubblico sta iniziando a ridere, e non è una risata frivola. È il suono di una comunità che non ha più paura».
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