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18 dicembre, 2025Sauditi e Qatar sono soggetti fondamentali per la stabilizzazione della Regione. Ma hanno visioni diverse su Hamas e Fratelli musulmani. Dagli ex negoziatori l’idea di una confederazione
L’ombra della lotta regionale tra fronte pro e anti Fratelli Musulmani, messi al bando da molti Paesi del mondo arabo tra cui l’Arabia Saudita, ammanta il futuro del Medio Oriente. Analizzando i fatti, partendo dagli equilibri, le alleanze e le incognite della fantomatica “seconda fase” del piano per il “cessate il fuoco” a Gaza promosso dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump, è palese che la pace sia ancora tutta da costruire. Il conflitto israelo-palestinese e la crisi umanitaria che pesano sulla popolazione gazawa, rappresentano un crocevia complesso, nel quale le dinamiche tra i principali attori coinvolti pesano non poco. Su tutti, i sauditi – come dimostra la visita del principe ereditario Muhammad bin Salman alla Casa Bianca lo scorso novembre – possono fare la differenza.
Mentre si delineano i pezzi di un mosaico fragile, le proposte di Riyad – filtrate grazie a una fonte interna al ministero degli Esteri saudita sentita da L’Espresso – ambiscono a una stabilizzazione della regione attraverso l’impegno diretto nella fase di disarmo di Hamas e nella ricostruzione della Striscia. Resta però centrale il ruolo del Qatar, che negli anni ha finanziato organizzazioni e intellettuali legati ai Fratelli Musulmani per espandere la propria influenza, soprattutto in Europa. Il Paese ospita la leadership di Hamas ed è stato il punto di equilibrio nell’asse di potere della mediazione, che coinvolge anche la Turchia e l’Egitto, con gli Stati Uniti.
Intanto, sul terreno, le condizioni peggiorano di giorno in giorno e l’amministrazione americana cerca di affrettare i tempi ottenendo l’approvazione della risoluzione Onu che affida a una entità esterna, il “Board of Peace”, pensata e guidata da Trump, per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale.
«La Risoluzione 2803/2025 approvata dal Consiglio di sicurezza lo scorso 17 novembre è un attentato alla pace e ai diritti umani, all’Onu e al Diritto internazionale dei diritti umani, alla legalità e all’autodeterminazione dei popoli. Viola la Carta delle Nazioni unite e riconosce la legge del più forte. Sono state inoltre ignorate le precedenti Risoluzioni che sanciscono il principio “Due Stati per due Popoli”. Di fatto, si toglie all’Onu il compito di ristabilire e assicurare la pace e fornire protezione e assistenza ai palestinesi. Compromesso il ruolo stesso del Consiglio di sicurezza», spiega il Centro di Ateneo per i diritti umani “Antonio Papisca” dell’Università di Padova.
In un contesto ancora segnato da attacchi da parte delle Forze di difesa israeliane e dal peggioramento delle condizioni umanitarie degli sfollati a Gaza, due figure storiche dei precedenti processi di pace, Yossi Beilin, ex negoziatore israeliano degli Accordi di Oslo, e Samieh El‑Abed, ex ministro e alto funzionario dell’Autorità nazionale palestinese, rilanciano una proposta politica per superare lo stallo attuale. «Serve coraggio politico, non solo tregue», afferma Beilin. Che rimarca con determinazione la necessità di escludere Hamas dal potere a Gaza, considerandolo «un ostacolo a qualsiasi soluzione basata sulla convivenza» e rilancia l’idea di una confederazione israelo-palestinese, «un modello che garantisca libertà di movimento, cooperazione economica e riconoscimento reciproco, superando i limiti della formula “due popoli, due Stati separati”».
Sulla stessa linea El‑Abed. Sostiene che «il dialogo è l’unica “arma” rimasta. Non è debolezza. Solo in questo modo la richiesta di uno Stato palestinese riconosciuto potrà essere più forte».
Ma la ripresa di un dialogo che possa portare a una soluzione politica, che contempli la legittimazione a livello globale della Palestina, non può che passare dal successo del piano di pace per il Medio Oriente favorito dal presidente americano e sottoscritto lo scorso 13 ottobre in Egitto. In questo contesto l’Arabia Saudita e il Qatar giocano (o sono chiamati a giocare) una partita sempre più tesa, con non poche differenze. Il Qatar emerge come “centro finanziario e diplomatico” per la ricostruzione di Gaza ed è visto come “interlocutore privilegiato” perché grazie alla sua influenza può fungere da ponte tra attori regionali, la popolazione palestinese e le potenze internazionali. Secondo alcuni rapporti, in caso di disarmo e ristrutturazione della leadership di Hamas, Doha avrebbe un ruolo centrale nel garantire che gli aiuti vengano canalizzati correttamente e che la rinascita nella Striscia non sia cooptata da gruppi armati ancora attivi.
Finora l’impegno dell’Arabia Saudita, dal punto di vista finanziario e diplomatico, è apparso meno definito. Per Riyad resta essenziale il «disarmo totale» a Gaza prima di impegnarsi seriamente. Il regno più potente del Golfo (e altri membri del cosiddetto “asse arabo sunnita”) non darà corpo alle sue proposte e al sostegno economico, «finché Hamas conserverà armi».
Insomma, il processo di ricostruzione resta congelato. E in questa complessità si inseriscono anche le balances diplomatiche degli Stati Uniti, che cercano di mantenere l’egemonia sul processo di pace attraverso il rafforzamento dei negoziati e degli accordi con i sauditi.
Il viaggio di Muhammad bin Salman si è rivelato un’occasione decisiva per delineare “gli auspici” di un Medio Oriente in evoluzione, dove il ruolo di Israele e le alleanze di potere si intrecciano con le tensioni interne israeliane e la resistente imprevedibilità delle dinamiche palestinesi.
Il futuro mediorientale non può dunque che configurarsi come il frutto di un equilibrio instabile, un campo di battaglia dove si scontrano interessi regionali e internazionali, ambizioni di controllo e rischi di escalation.
Una sola cosa è certa: finché non ci sarà una soluzione politica per Gaza, 70.000 palestinesi saranno morti per nulla.
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