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18 dicembre, 2025In dieci anni ha saldato il Fmi prima del tempo e sta ripagando il debito con Bruxelles. Ora uno dei suoi è stato nominato a capo dell’Eurogruppo. Con l'applauso della Germania
Quando Alexis Tsipras, il premier che condusse la sinistra greca al potere a inizio millennio per poi essere divorato dalla crisi finanziaria, qualche giorno fa ha presentato il suo libro, Itaca, ha spiegato le ragioni del titolo: «Itaca non è una destinazione, è un viaggio eterno». Quello della sinistra greca, certamente. Ma anche quello della Grecia tout-court. Un viaggio dai risvolti sorprendenti, che nell’ultimo decennio ne ha profondamente trasformato il tessuto economico, conducendola dallo status di paria a quello d’esempio per l’Europa.
Nel 2009 a portare i venti della tempesta finanziaria americana in Europa fu proprio Atene, con l’annuncio a un esterrefatto gruppo di ministri delle Finanze europeo del ministro George Papaconstantinou: il deficit del Paese era quattro volte quello permesso dal patto di stabilità e due volte quello precedentemente dichiarato. Partirono le verifiche e il nuovo responsabile dell’ufficio di statistica, alla fine del 2010, scoprì che il deficit reale arrivava addirittura al 15,4 per cento.
Fu l’inizio ufficiale della Tragedia greca e della Grande crisi europea. Anni di scossoni politici ed economici che portarono Syriza al potere, seppellendo il dualismo politico tra socialisti e conservatori. Fino a quando nel 2015 Atene, stretta nella morsa dell’austerità dalla Troika (il trio composto da Commissione europea, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale) fu a un passo della Grexit, con Tsipras disperato, in maniche di camicia bianca tra Bruxelles e Atene, costretto ad accettare un accordo capestro che avrebbe salvato la Grecia e l’euro ma che tradì il suo elettorato, gettò in povertà la metà della popolazione e distrusse la sua carriera politica. Nel 2019 vinse le elezioni il conservatore Kyriakos Mitsotakis, ancora oggi al potere.
Dieci anni più tardi arriva l’ultima svolta. Quel gruppo di ministri delle Finanze, l’Eurogruppo, che voleva la Grecia fuori dall’euro, la settimana scorsa ha nominato un greco, Kyriakos Pierrakakis, alla sua guida. Nel discorso di insediamento ha dichiarato di volere rendere quei 20 membri dell’Euro «un corpo unico, da Nord a Sud, da Est a Ovest, superando le vecchie divisioni tra frugali e spendaccioni». Compito complesso, ma oggi alleggerito dalla caduta degli stereotipi tradizionali con il crollo del sistema economico tedesco, l’esplosione del debito francese e la rimonta dell’economia greca.
A favorire Pierrakakis rispetto al più competente belga Vincent van Peteghem ha contribuito la riluttanza del Belgio a sbloccare i fondi russi congelati per sostenere l’Ucraina. Ma è stata la svolta economica della Grecia, che ha ripagato i prestiti del Fondo monetario in anticipo e sta restituendo in tempo quelli europei, a decretare che fosse il momento che un greco guidasse la moneta unica. Tanto più che la sua crisi ha salvato l’euro stesso, con la creazione del Meccanismo economico di stabilità (Esm) e la definizione della Bce come prestatrice ultima. «A causa della Grecia l’Europa è cambiata», ha detto Yannis Stournaras, governatore della Banca centrale greca: «La Grecia è stata l’ostetrica della Storia».
Dopo avere sforato la soglia del 200 per cento rispetto al prodotto interno lordo, il debito greco si è attestato oggi a poco più del 150 per cento e, nel giro di un paio d’anni, dovrebbe scendere al 138 per cento, uguagliando il dato dell’Italia.
Il rapporto debito/Pil migliora anche perché l’economia è cresciuta negli ultimi anni a una media del due per cento, superiore a quella dell’Eurozona, dopo periodi di tassi negativi al 5 per cento, grazie a una vivace ripresa dei consumi interni, all’aumento degli investimenti e al buon utilizzo dei fondi del Recovery fund. Un capovolgimento radicale rispetto alla situazione del 2015 quando l’allora ministro delle Finanze tedesco Wolfang Schauble avrebbe voluto la Grecia fuori dall’euro.
«Permettetemi di dire che seguiamo con il più grande rispetto quello che la Grecia ha fatto dalla crisi finanziaria del 2009», ha detto il cancelliere tedesco Friedrich Merz durante la visita di Mitsotakis a Berlino lo scorso maggio: «Ha dei tassi di crescita che qui in Germania possiamo solo sognare».
Anche la disoccupazione, per cui la Grecia era tristemente famosa, è crollata. Durante gli anni della Grande crisi oltre un quarto della popolazione attiva non aveva lavoro: adesso è scesa all’otto per cento. E, forse il miglior segnale che molto è cambiato, i greci stanno rientrando in Patria. Nel secondo decennio di questo secolo circa 600mila persone, per lo più giovani, avevano lasciato malvolentieri le loro case alla ricerca di un lavoro in Europa. Oggi i dati citati dal vice primo ministro Kostis Hatzidakis indicano che due terzi di loro sono tornati, incoraggiati dai nuovi investimenti, dalla politica fiscale del governo, che ha dimezzato le tasse sul reddito per sette anni per chi ne ha vissuti almeno cinque all’estero, dall’aumento dei salari del 28 per cento dal 2016, ma anche dal desiderio di uno stile di vita magari meno ambizioso e remunerato, ma più rilassante e, nel 30 per cento degli intervistati, in un Paese inondato dal sole.
Il rientro di personale altamente qualificato sta rafforzando non solo il comparto tecnologico - inesistente prima della crisi – ma anche i settori delle costruzioni, dell’educazione e della salute, e sta irrobustendo la produttività complessiva, il vero tallone d’Achille della Grande ripresa greca.
Non tutti i problemi sono infatti risolti. Debole produttività – meno della metà della media europea, investimenti in crescita ma ancora al di sotto della media europea del 20 per cento del Pil, persistenti sacche di povertà in alcune fasce della popolazione e episodi di corruzione in alcuni settori (come quello agricolo) dopo il boom della digitalizzazione dei servizi pubblici negli anni del Covid voluta anche per ridurre l’evasione fiscale, hanno spinto Mitsotakis all’adozione di alcune misure controverse che recentemente ne hanno indebolito il sostegno popolare, intorno al 23 per cento dei consensi. Convincendo Tsipras che un ritorno nell’arena politica, come grande unificatore di una sinistra debole e frammentata, sia possibile.
Tra gli strali dei sindacati, il premier ha introdotto infatti la possibilità di lavorare sei giorni a settimana in alcuni settori – l’industria manifatturiera, le aziende che operano 24/7 e quelli con comprovata carenza di manodopera –pagando il sesto giorno il 40 per cento in più della retribuzione giornaliera. Quest’anno ha poi aumentato a 13 il numero di ore che possono essere lavorate nello stesso giorno per lo stesso datore di lavoro.
Si tratta di misure controverse che vanno in controtendenza rispetto a quelle dai Paesi del Nord Europa, dove la settimana lavorativa si sta progressivamente riducendo a quattro giorni, e che rischiano di azzerare quell’equilibrio tra vita e lavoro che fino a oggi ha riportato in Patria tanti giovani. Un lusso questo che la Grecia non si può permettere. Perché dopo anni di distruzione di ricchezza dovrà continuare a crescere più della media europea almeno per altri 15 anni. Se non eterno, il viaggio è certamente ancora lungo.
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