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2 dicembre, 2025La giornalista è tra le massime esperte di giustizia internazionale nei Balcani
La nuova inchiesta della Procura di Milano sui cosiddetti cecchini del weekend riporta alla luce una delle pagine più oscure dell’assedio di Sarajevo: quella dei cittadini stranieri – italiani compresi – che, secondo diverse testimonianze, pagarono le milizie serbo-bosniache per sparare “per divertimento” sui civili intrappolati nella città. Un capitolo di barbarie conosciuto ma mai davvero indagato, evocato da reportage e denunce, e ora oggetto di un fascicolo per omicidio volontario aggravato da crudeltà e motivi abietti che ha fatto il giro del mondo. Tra le voci più autorevoli per leggere questa vicenda c’è Florence Hartmann, giornalista e scrittrice francese, da trent’anni tra le massime esperte di giustizia internazionale nei Balcani.
Corrispondente durante la guerra per Le Monde e poi portavoce della procuratrice Carla Del Ponte al Tribunale dell’Aja, Hartmann ha seguito da vicino le indagini sui crimini di Sarajevo e il dossier su Radovan Karadžić. Ha denunciato per prima come complicità politiche e segreti di Stato abbiano impedito di far emergere la verità sul sistema di terrore che governava l’assedio. Le sue rivelazioni le sono costate care: nel 2016 è stata arrestata davanti al Tribunale dell’Aja e detenuta nel carcere di Scheveningen per aver dato notizia di documenti secretati che dimostravano il coinvolgimento della Serbia nel genocidio di Srebrenica del 1995. Un episodio che l’ha trasformata in un simbolo della battaglia per la trasparenza nella giustizia internazionale. Oggi Hartmann considera la vicenda dei “cecchini del weekend” un tassello mancante di quella storia: l’anello che collega il sistema militare di Karadžić a una rete di complicità private e politiche ancora da chiarire.
Quanto si sapeva, tra gli addetti ai lavori, di questi “safari”?
«La maggior parte di noi ne era già a conoscenza, queste storie giravano. Avevamo visto il documentario, eppure non era successo niente. Un investigatore italiano che ha lavorato per il Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia ha reagito a un mio commento su Facebook dicendo: “Sapevamo già tutto”. Io gli ho risposto che sì, conoscevamo la storia, ma non basta. Ora ci aspetta un passaggio cruciale».
Quale?
«Conoscere i nomi di quelle persone. La rete degli organizzatori, tutti i complici. Le menti. Per arrivare in Bosnia facevo più o meno lo stesso percorso di questi “turisti”. Da Belgrado arrivavo a Sarajevo con un furgone in incognito. Per strada non c’era nessuno: se non eri uno dei loro, venivi arrestato. Un giro turistico di questo genere doveva essere ben organizzato. Posso immaginare perfettamente quali strade abbiano percorso e quali posti di blocco abbiano superato. Sono stata felice di sapere che sia nata questa inchiesta giudiziaria».
Negli anni ’90, mentre documentava le guerre, era già a conoscenza del fenomeno?
«Sapevamo del safari dei cecchini, nel senso che alcuni di loro erano ben visibili. Come lo scrittore Eduard Limonov».
I video di Limonov che spara su Sarajevo sono ancora su YouTube. In quegli anni viveva in Francia.
«Esatto. E quando sono tornata in Francia dai Balcani l’ho incontrato all’inaugurazione della Fiera del Libro di Parigi. L’ho guardato e ho detto a chi era con me: “Come possiamo permettere che quest’uomo cammini liberamente per le strade di Parigi?” Era un cecchino, un assassino. I miei amici reagirono tiepidamente. E attenzione: in quegli anni tutto il mondo parlava di quello che succedeva a Sarajevo».
Chi sparava, oltre a Limonov?
«Sapevo che ci fossero altri “vip”. Non mi aspettavo così tanti profili “normali”, stando a ciò che leggo oggi sui giornali. Spero che Milano possa contagiare altre procure. Non sono sicura che in Francia si sarebbero mossi così. Per non parlare della Serbia, che non li arresterebbe nemmeno. Ecco perché è così importante».
Non teme che sia passato troppo tempo?
«No, assolutamente. Deve passare il messaggio che non c’è impunità. È giusto che chi ha compiuto quei crimini non abbia una vita serena. Che viva con l’ansia di non sapere quando verrà arrestato, anche tra dieci anni. Che non si liberi più di questa storia. Lo stesso messaggio deve valere per chi compie atrocità oggi».
Il fascicolo arriva trent’anni dopo gli accordi di Dayton. Lei è sempre stata critica verso quei trattati.
«La comunità internazionale, soprattutto gli Stati occidentali, è stata incapace per anni di risolvere un conflitto che, seppur ad altissima intensità, si svolgeva in una piccola regione. Se non sappiamo risolvere queste guerre, siamo inadatti a guidare il mondo. Il genocidio di Srebrenica ha dimostrato il fiasco diplomatico. Hanno negoziato con il principale responsabile del conflitto, Milosevic. E le sue colpe erano chiare a tutti».
Quali sarebbero dovute essere le basi per la pace?
«Quella in Bosnia fu una guerra di aggressione di Belgrado. Eppure a Dayton non riconobbero la pulizia etnica. Al contrario, attribuirono ai serbi un territorio che non era assolutamente etnicamente uniforme. E oggi tutta la costituzione della Bosnia-Erzegovina, di fatto scritta dagli americani, ha come unica base l’etnia».
Che cosa ci insegna Dayton oggi?
«Incoraggio tutti i miei contatti ucraini a informarsi su Dayton. E li metto in contatto con persone dell’ex Jugoslavia perché hanno vissuto situazioni molto simili. Ma la cosa più importante è che i diplomatici riflettano profondamente su quali sono stati i nostri errori. Un lavoratore, persino il capo di un’azienda, viene esaminato per vedere se ha fatto bene il suo lavoro o no. E invece non c’è alcun controllo sulla diplomazia. Quante guerre ci sono state perché non siamo riusciti a prevedere le crisi? La Bosnia è il caso perfetto da studiare».
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