Con la stretta della Casa Bianca sugli irregolari, pure a New York dilaga il panico tra i quasi 500 mila immigrati senza documenti. Che qui lavorano. E che qui, finora, si sentivano al sicuro

Il fiume Hudson, sotto il peso delle lastre di ghiaccio, scorre lentamente nei giorni di fine gennaio. Poche persone a passeggio. Le temperature mordono in media sette gradi sotto lo zero. A Manhattan per strada ci sono quasi esclusivamente autisti di Uber e rider che alle estremità del manubrio della bici hanno attaccato guantoni imbottiti alla buona per riscaldarsi durante le corse. Nei ristoranti mezzi vuoti, camerieri e lavapiatti spalano la neve dai marciapiedi. Calma apparente, cuore in subbuglio. Quattrocento chilometri più a Sud, nella Capitale, Donald Trump ha firmato una raffica di ordini esecutivi volti a bloccare «l’invasione» degli immigrati illegali: «animali» arrivati nel Paese solo «per commettere reati» e «avvelenare il sangue» della nazione. Una promessa fatta alla sua base.

 

Orgogliosa, la Casa Bianca ha diffuso foto di uomini (tutti con precedenti penali) ammanettati, in fila indiana verso l’aereo militare che li avrebbe riportati nei loro Paesi d’origine, i primi in Guatemala. Immagini scioccanti perché esibite come trofei, non perché rappresentino una novità: era accaduto anche sotto i democratici Barack Obama e Joe Biden. Il punto è il radicamento della logica del «noi contro loro», che arriva anche in una città come New York, dove ogni giorno quasi 500 mila persone senza documenti lavorano spalla a spalla con gli «americani». A cui costruiscono e puliscono le case, curano i bambini, preparano e servono la cena al ristorante. E con cui, poi, magari bevono un drink al bar.

 

Nell’East Village, all’angolo tra la Second Avenue e la Nona Strada, un gruppetto di «delivery guy» in pausa guarda sui social video del presidente tradotti in spagnolo. Il ragazzino più loquace è Anthony, almeno così dice di chiamarsi. È arrivato dal Messico quando aveva 14 anni: «Anche nel 2017 avevamo le stesse paure, ma qui almeno non successe nulla. Ora, però, l’hombre sembra più arrabbiato».

 

Ansia e incertezza tornano a bussare alla porta. È vero che il neopresidente potrebbe non riuscire a realizzare «la più grande espulsione di massa della storia» né a sigillare i confini, nonostante il Pentagono conti di mandare fino a diecimila soldati per supportare la polizia di frontiera; e potrebbe veder sfumare l’abolizione dello ius soli, già bloccata da un giudice federale perché «incostituzionale». Eppure, la retorica degli stranieri come nemico numero uno è destinata a permeare questa nuova America, non più terra che accoglie «gli stanchi, i poveri, i senza casa», come recita l’incisione ai piedi della Statua della Libertà.

 

«A lungo termine non tutti gli ordini esecutivi verranno implementati. Alcuni sono già arrivati in tribunale. Alla fine del mandato, però, Trump dirà di averci provato e che a impedire l’attuazione del piano saranno stati altri, il Congresso, il dipartimento di Giustizia, i giudici», commenta con L’Espresso Ariel Ruiz Soto del Migration Policy Institute di Chicago. Secondo l’analista, «resterà lo strascico di come gli Usa vengono percepiti non solo all’interno del Paese, ma anche nel mondo. Non saranno più una destinazione che attira immigrati».

 

Il presidente parla di «invasione» e lo fa per giustificare la dichiarazione di emergenza nazionale, quindi l’accesso a finanziamenti straordinari e l’uso dei militari. Ha definito il confine un altro «fronte di guerra», riferendosi soprattutto all’afflusso record tra 2021 e 2023. È la metafora bellica con cui ha martellato la base in campagna, nonostante l’amministrazione Biden, proprio lo scorso anno, sia corsa ai ripari chiudendo i confini e rimpatriando oltre 270 mila illegali. Non è bastato: la retorica della debolezza dem fa gioco ai repubblicani, in cerca di capri espiatori per una ricchezza che non è più quella vissuta dalle generazioni precedenti e per un percepito aumento del crimine, nonostante le ricerche smentiscano la teoria. Secondo l’Università di Stanford, gli immigrati hanno il 30 per cento in meno di probabilità di essere incarcerati rispetto ai cittadini americani bianchi. Inoltre, chi li dipinge come un problema dimentica che da sempre hanno contribuito a rendere grande il Paese. Oltre a costituire il 5 per cento della forza lavoro, gli irregolari pagano circa 100 miliardi di dollari di tasse l’anno, secondo l’Institute on Taxation and Economic Policy (2022).

 

«Sarà interessante capire se gli americani respingeranno le politiche di Trump quando queste saranno percepite come irrealizzabili, disumane, o quando scateneranno violenza per le strade. Se questi elementi si unissero, sono sicuro che molti comincerebbero a prendere le distanze», spiega ancora Ruiz Soto. Potrebbe succedere con la questione dell’Immigration and Customs Enforcement. Agli agenti di frontiera, infatti, è stato dato il potere di fare raid anche all’interno di scuole, chiese e ospedali. Ovunque, non solo nelle città al confine. «Rispetto al primo mandato, Trump sta dimostrando di avere un approccio più strategico», continua l’esperto.

 

A New York vivono anche tantissimi italiani senza documenti. «Sono arrivato 21 anni fa dalla Calabria; non sarei voluto restare così a lungo, ma ho avuto una figlia e, a quel punto, non ho potuto più scegliere: ho lasciato scadere il tempo di permanenza regolare», ricorda Alberto, un amico che incontriamo al bar del ristorante dove lavora come chef. «Ascolto poco le notizie, tanto non posso farci nulla; però ho l’impressione che i “Maga” del Sud ci immaginino davvero come animali. Forse un immigrato non l’hanno mai visto. Non sapete quanto mi manchi casa», confessa. Mercedes, invece, arriva dall’Honduras. A casa sua si parla solo di Trump e della frustrazione di essere usati come carne da dare in pasto alla base, per nutrirne l’odio. Lei è tranquilla perché fa la baby-sitter per una famiglia con cui ormai ha un rapporto affettivo; suo marito, però, lavora in un diner e ogni giorno teme una retata: «Abbiamo lasciato la Florida, ostile agli immigrati, per trovare serenità qui».

 

Del resto, New York, come tante altre realtà a maggioranza democratica, si definisce «sanctuary city»: un rifugio che rifiuta di collaborare con le agenzie federali e di applicare le normative in materia di immigrazione irregolare. Oggi non è più scontato, soprattutto dopo il raid dei funzionari dell’Ice in un mercato del pesce a pochi chilometri, a Newark, nel New Jersey. E ora anche a Chicago. «Siamo spaventati perché dicono che il sindaco potrebbe venderci», ipotizza Mercedes. Eric Adams, su cui pendono accuse di corruzione, ha infatti plaudito all’elezione del leader repubblicano. E gli ha chiesto di essere graziato, dicendosi pronto a collaborare con l’amministrazione, pur rimanendo vago sui termini.

 

Gli arresti e i rimpatri dei giorni scorsi riguardano tutti illegali con la fedina penale sporca. Ma sarebbe un errore dire che siano presi di mira solo i criminali. Eliminando con una firma due programmi istituiti dal predecessore, Trump ha messo nel limbo oltre un milione di persone in fuga da Cuba, Nicaragua, Venezuela, Haiti a cui era stato concesso asilo provvisorio. A terra sono rimasti anche gli aerei che avrebbero dovuto portare negli Usa 40 mila afgani in possesso di visto speciale. «La retorica di Trump e il livello di paura calato sulla comunità di stranieri fanno parte di una strategia che punta anche a spingere gli irregolari ad andare via spontaneamente, incluse le famiglie che hanno uno status misto», riflette Ruiz Soto. Soprattutto, a scoraggiare i nuovi arrivi. E gli effetti collaterali di queste politiche, probabilmente, sopravviveranno agli ordini esecutivi.