C’è un tratto che accomuna tutte le comunità dell’America post-industriale: i pannelli di legno sottile inchiodati alle finestre delle case sventrate. Se ne vedono a centinaia lungo il fiume Ohio, dall’Illinois fino al West Virginia e alla Pennsylvania, a presidiare quel che resta di una regione che prosperava con le attività minerarie del carbone. Di quella promessa di ricchezza, oggi rimangono solo fantasmi: città abbandonate, fabbriche dismesse, disoccupazione, spopolamento, povertà endemica e tossicodipendenza dilagante.
È agli abitanti di questa “Coal Country” che Donald Trump si è rivolto quando la scorsa settimana ha firmato quattro nuovi ordini esecutivi per rilanciare l’economia del «carbone meraviglioso e pulito». Un’operazione di archeologia energetica, messa in scena nella East Room della Casa Bianca, con un drappello di minatori in elmetto schierati alle spalle del commander in chief; dettata, dice l’amministrazione, dall’aumento della domanda energetica trainata dalla crescita dei data center, dell’intelligenza artificiale e dell’industria delle auto elettriche. Nello storytelling ideologico del movimento Make America Great Again, il carbone è sempre stato simbolo di una nazione che vuole tornare ai fasti del tempo che fu, rimettendo in funzione miniere e grandi impianti. Una visione che ignora innovazione e transizione energetica, ma che accoglie i patemi e le ansie della working class bianca dimenticata e rimasta indietro.
Umori e ambienti che lo scienziato Donald Wuebbles, premio Nobel per la pace nel 2007 con l’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc) per gli studi sul clima, conosce bene. «Sono cresciuto in mezzo alle miniere, a sud dell’Illinois. Ho sempre provato compassione per i minatori, perché respirano polveri che contengono sostanze tossiche e pericolose. I loro problemi di salute sono risaputi», ci racconta quando lo raggiungiamo. «Se guardiamo a Illinois, Kentucky o West Virginia, è chiaro che per molte famiglie le miniere rappresentavano un’occasione economica. Ma oggi dobbiamo trovare nuove fonti di reddito per quelle stesse persone. E le opportunità ci sono, pensiamo alle energie rinnovabili, come solare o eolico. Queste industrie creano molti più posti di lavoro: fino a dieci volte di più rispetto alle centrali a carbone». In altre parole, osserva, le politiche di ritorno promosse dall’amministrazione non porteranno vantaggi concreti agli operai, alla base elettorale repubblicana del presidente, bensì favoriranno le grandi compagnie minerarie.
Per gli ambientalisti come il professor Wuebbles, il revival trumpiano è l’immagine plastica di un Paese che si ostina a cercare il futuro nel passato, riesumando il più inquinante tra i combustibili fossili, in declino da decenni, responsabile di circa il 40 per cento delle emissioni industriali di anidride carbonica a livello mondiale, che contribuiscono rovinosamente al surriscaldamento del pianeta. «Non esiste il carbone pulito. Nel mondo si registrano oltre un milione di morti all’anno che sono in gran parte legate ai combustibili fossili», aggiunge l’esperto.

Ma le valutazioni della comunità scientifica non hanno fermato l’agenda del presidente, scandita dalle quattro firme siglate con l’ormai leggendario pennarello nero d’ordinanza. Trump ha dato disposizione a tutte le agenzie federali di eliminare qualsiasi politica ritenuta ostile all’industria del carbone, a partire dallo stop alla moratoria sugli affitti di terreni pubblici, e di accelerare i finanziamenti destinati a nuovi progetti. Ha anche imposto lo stop alle «politiche non scientifiche e irrealistiche» introdotte sotto l’amministrazione Biden. Un colpo di spugna che cancella gli sforzi del suo predecessore per limitare l’inquinamento delle centrali elettriche a carbone. Il nuovo inquilino della Casa Bianca si è altresì opposto alle misure di sinistra definite polemicamente “woke” che «discriminano fonti di energia sicure come il carbone e altri combustibili fossili». Il ministero di Giustizia, poi, ha ricevuto mandato di indagare e agire legalmente contro i provvedimenti ambientali adottati da quegli Stati «di sinistra radicale» che, secondo l’ordine, discriminano il settore in violazione della Costituzione.
Nondimeno, non sarà facile cambiare rotta, neppure a colpi di ordini esecutivi, visto che centinaia di impianti sono in dismissione. L’operazione rilancio, in verità, non aveva funzionato nemmeno durante il primo mandato Trump, concluso con un bilancio di 75 centrali chiuse e 13mila posti di lavoro sfumati. Se nel 2011 quasi metà dell’elettricità americana veniva dal carbone, la percentuale si è gradualmente risicata fino al 15 per cento. Il declino è dettato soprattutto dalla competitività delle energie rinnovabili – gas naturale, eolico, solare – sempre più economiche. E bisogna ringraziare questa tendenza se da due decenni le emissioni in Usa sono finalmente in calo. Quest’anno – lo attesta la governativa Energy Information Administration – il 93 per cento dell’energia elettrica proverrà da solare, eolico e batterie di accumulo. Nel 2023 un rapporto di Energy Innovation Policy & Technology ha stabilito che l’energia pulita è ormai così conveniente che costa di più mantenere in funzione le centrali a carbone che sostituirle.
Insomma, un’inversione a “u” non sarebbe un grosso affare, nonostante il ministro degli Interni Doug Burgum sostenga come il carbone sia «incredibilmente importante per l’economia», con l’obiettivo dichiarato di abbassare «i prezzi per i consumatori di tutto il Paese, schizzati alle stelle sotto l'amministrazione Biden». Eppure, bruciare carbone per generare elettricità potrebbe pesare sui portafogli dei contribuenti da tre a quattro volte di più rispetto all’energia pulita: 89 dollari per megawattora, contro i 31 dell’eolico, i 23 del solare e i 43 del gas naturale (dati Energy Information Administration).
«Anche volendo ignorare il cambiamento climatico, bruciare carbone è circa dieci volte più oneroso rispetto all’uso del gas naturale o delle fonti più pulite, considerando tutto il lavoro necessario per estrarlo dal sottosuolo – conferma Donald Wuebbles – Per questo le centrali stanno chiudendo a ritmo sostenuto in tutti gli Stati, perfino in quelli tradizionalmente repubblicani». Per il premio Nobel, non sarà il carbone a «rendere l’America di nuovo grande, come se si potesse riportare indietro il tempo a quando i minatori erano fondamentali per l’economia». Non ci sono più i presupposti, ci spiega, soprattutto a causa dei danni collaterali. «Col passare dei decenni ci siamo accorti che c’erano dei costi nascosti. E oggi le prove scientifiche sono chiarissime. Ormai è evidente che dobbiamo cambiare il nostro sistema energetico se vogliamo tutelare la salute e prevenire le conseguenze a lungo termine che il cambiamento climatico porterà. Il carbone, semplicemente, è una storia del passato».