Nel Mediterraneo muoiono sette persone al giorno, in fuga da guerre e miseria. Solo grazie alle organizzazioni umanitarie questo numero non è ancora più alto

Soccorrere i migranti in mare è solo l’inizio, ma la politica continua a ostacolare l'operato delle ong

Mentre la nave Humanity 1 si allontana dal porto di Siracusa, l’alba è un punto rosso all’orizzonte. Al suo posto, tre giorni dopo la partenza, verrà avvistato un primo barchino in vetroresina con a bordo nove migranti. Altri 59 verranno tratti in salvo poche ore dopo. In 10 anni nel Mediterraneo centrale, l’ong tedesca Sos Humanity ha salvato oltre 38mila naufraghi salpati dalle coste del Nord Africa e diretti in Europa. Per ogni missione, sulla nave opera un equipaggio internazionale composto da soccorritori specializzati, marinai, medici, ingegneri, cuochi e carpentieri.

 

A unire persone con provenienze e vissuti molto diversi è l’idea che il rispetto dei diritti umani non abbia bandiera. Tra loro c’è chi ha conosciuto da vicino gli effetti delle politiche repressive nei confronti delle persone migranti, come Richard, originario del Ghana, che sulla nave si è trovato a soccorrere anche dei connazionali. Altri alla Humanity 1 si sono avvicinati per caso, come Mark, che prima lavorava in solitaria su una nave cargo e ora sente di essere legato all’equipaggio da un obiettivo comune: «Aiutare persone che non hanno altra scelta se non quella di lasciare il proprio Paese per sopravvivere e cercare una vita migliore».

 

La risposta prevalente della politica europea è quella di criminalizzare chi migra, un approccio che si ripete anche molto lontano dal Mediterraneo. Lauren, medico di bordo, è australiana e racconta che chi tenta di raggiungere il suo Paese via mare rischiando la vita viene costantemente respinto o imprigionato. Dal 2000 il governo centrale trattiene diverse centinaia di persone in cerca di asilo in condizioni di povertà estrema in Indonesia, Nauru e Papua Nuova Guinea, impedendo loro di raggiungere l’Australia.

 

Per Peter, attivista statunitense, non importa se le persone in pericolo si trovano a centinaia di chilometri da casa sua: «Questa crisi migratoria è quasi del tutto ignorata negli Stati Uniti. Una delle rare volte in cui i giornali hanno parlato del Mediterraneo risale a un paio di anni fa, quando è affondato un sommergibile con a bordo un passeggero americano. Eppure, l’approccio statunitense nei confronti dei migranti è molto simile a quello dell’Europa, dove però le strategie di intervento sono più subdole».

 

Dalla sua sede di Berlino, negli anni Sos Humanity ha visto le politiche migratorie europee e nazionali diventare più severe. Da quando nel 2018 e poi nel 2024 sono state istituite le zone di ricerca e soccorso (Sar) in Libia e Tunisia, gli Stati europei hanno progressivamente esternalizzato la responsabilità dei soccorsi alle autorità extra-Ue, con un forte aumento dei respingimenti illegali delle partenze via mare. «La narrazione della migrazione da parte degli attori democratici è sempre più caratterizzata dalla disumanizzazione delle persone in cerca di protezione – dice Marie Michel, responsabile della rappresentanza politica dell’ong – chi migra viene indicato come una minaccia per la sicurezza e anche il nostro lavoro viene delegittimato».

 

Quella del Mediterraneo centrale è una delle rotte migratorie più letali al mondo. Durante la sua traversata muoiono o restano disperse circa sette persone al giorno dal 2014. Secondo le stime dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni si tratta di almeno 24.810 vittime in totale tra uomini, donne e bambini. Ogni giorno di ricerca perso può far aumentare questo numero.

 

Quando la Humanity 1 entra nella zona Sar libica, il monitoraggio sul posto manca da almeno quattro giorni. Dopo aver soccorso oltre un centinaio di naufraghi, l’ong Sos Méditerranée ha lasciato le acque libiche per dirigersi verso la località di sbarco assegnata, in provincia di Grosseto, a diversi giorni di viaggio di distanza. Significa che nel frattempo potrebbero essere scomparse altre persone. Anche per questo motivo, per l’equipaggio di Sos Humanity è cruciale subentrare il prima possibile.

 

L’assegnazione di porti distanti prevista dal decreto Piantedosi è un problema per le ong. Oltre ad aver allungato i tempi di intervento, la normativa comporta anche degli ostacoli tecnici. «Il salvataggio è paradossalmente l’operazione meno complicata rispetto al grande sforzo legale che ci è richiesto per dimostrare che le persone in mare hanno davvero bisogno di essere salvate – spiega Viviana, responsabile delle attività di ricerca e soccorso – Leggi nazionali e diritto internazionale entrano in contraddizione e il nostro lavoro è diventato più difficile».

 

Delle 68 persone portate in salvo dall’Humanity 1 a inizio maggio, 25 sono minorenni, 16 sono senza genitori, sei sono donne, una di loro porta in braccio un bambino di appena un anno. Quando le barche che li trasportano vengono avvistate, è notte inoltrata e loro un punto di luce nell’acqua. Avvicinandosi alla nave, chi è a bordo inizia a urlare per attirare l’attenzione. Dopo aver ricevuto i giubbotti di salvataggio, tre uomini rimangono a bordo dell’imbarcazione, che indietreggia e si dilegua nel buio. «Si tratta probabilmente di trafficanti che hanno approfittato della situazione per abbandonare i loro passeggeri, in acqua da giorni» dice Viviana, che poche ore dopo si occuperà di coordinare anche il secondo soccorso.

 

«Durante il viaggio credevo di morire, eravamo ammassati uno sull’altro, il vento era gelido e nella barca entrava acqua. Se qualcuno provava ad alzarsi o a lamentarsi veniva picchiato. Non sentivo più le gambe, mia mamma mi diceva solo di pregare – racconta Ainoor, pakistana ma cresciuta in Libia – Come tutti gli stranieri, lì subivamo discriminazioni costanti e a lavoro spesso non venivamo pagati». Per gran parte della sua vita ha sperimentato soprusi e privazioni, ricevendo ogni giorno insulti per le sue origini. Anche per questo la sua determinazione è sorprendente: «Mi hanno impedito di continuare a studiare, ma in Italia voglio ricominciare per diventare un’ingegnera informatica».

 

La maggioranza delle persone salvate è partita dal Pakistan e dall’Egitto affrontando poi diversi anni in Libia. Molti di loro hanno segni di tortura sul corpo, come Fazal, che a Tripoli è stato picchiato più volte ed è stato derubato di tutto ciò che aveva. Per riuscire a estorcergli altro denaro, gli aguzzini di cui è stato prigioniero hanno minacciato ripetutamente i suoi genitori. Ora che è riuscito a lasciarsi la Libia alle spalle, Fazal non vede l’ora di poterli riabbracciare. Come lui, tanti trascorrono la notte del soccorso e i giorni a seguire in silenzio.

 

Aldo, etnopsichiatra a bordo incaricato di prendersi cura della salute mentale dei sopravvissuti, spiega che il modo di esprimere la sofferenza cambia in base alla provenienza delle persone: «Chi arriva dal Maghreb, per esempio, manifesta il proprio disagio attraverso l’autolesionismo, chi viene da alcune zone dell’Africa meridionale tende a esplodere di rabbia; molte persone dall’Asia centrale preferiscono chiudersi in sé stesse».

 

Tra i sopravvissuti nel Mediterraneo ci sono anche alcuni ragazzi partiti da Bangladesh, Somalia e Iran. Durante i quattro giorni di navigazione verso La Spezia, il porto di sbarco assegnato dalla guardia costiera italiana, non smettono di guardare l’orizzonte. Quando vedono un’imbarcazione in lontananza – di solito pescherecci o navi commerciali – si affrettano a segnalarlo ai soccorritori, perché temono che siano motovedette libiche venute a prenderli o persone che hanno bisogno di aiuto.

 

Il giorno dello sbarco i sopravvissuti indossano i loro vestiti migliori. Affacciati al parapetto dicono che l’Italia è il loro Paese dei sogni. Sulla nave c’è chi ha imparato qualche parola di italiano e chi per la prima volta ha sentito di avere dei diritti. Chi li ha salvati sa che il percorso all’interno del sistema di accoglienza sarà complesso e ha provato a metterli in guardia: «Il viaggio in mare per loro è solo una parte di un viaggio difficile che dura da anni e che durerà ancora molto – dice Aldo mentre li guarda allontanarsi – Fare in modo che almeno per qualche giorno a bordo si sentano meno soli e spaventati può fare la differenza».

٭Credits foto: Lizzie Gilson / Sos Humanity

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